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Alpi e Hrowatin vent'anni dopo, giornalisti contro
20/3/2014

Il 20 marzo 1994 venivano uccisi in Somalia due giornalisti della Rai. Massimo Alberizzi, allora inviato del Corriere della Sera in Somalia, non crede alla teoria del complotto e dell’omicidio su commissione perché i due reporter avevano scoperto traffici illegali. Luciano Scalettari, inviato di Famiglia Cristiana, ribatte: ci sono numerosi indizi sul coinvolgimento delle nostre istituzioni in affari illeciti.


 

«Sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrowatin sono stati spesi fiumi di inchiostro per dimostrare che dietro l’assassinio ci fosse un complotto. Per dimostrare questa tesi spesso sono state intrecciate notizie vere con fatti non provati, il che ha condotto a conclusioni avventate, presentate come verità. Così se si chiede a qualcuno: “Sai perché sono morti Ilaria e Miran?”, la risposta è una sola: “Perché avevano scoperto traffici illeciti”. Potenza della disinformazione. Non è vero».

A vent’anni dalla tragica morte
dei due giornalisti Rai, Massimo Alberizzi, già inviato del Corriere della Sera ed esperto di Africa, smonta la tesi dominante del «complotto» ordito da malavita italiana, miliziani somali e servizi deviati. Secondo Alberizzi, questa tesi non regge. «In Somalia - continua - con pochi dollari comperavi qualsiasi testimonianza. Con mille dollari riesci a trovare facilmente dieci persone, pronte a confessare qualunque reato». E punta il dito contro molti colleghi pronti a «confortare le tesi in cui credono fideisticamente con testimonianze per le quali è stato pagato denaro». Questo atteggiamento, secondo il reporter che conosceva bene Ilaria Alpi e con lei ha condiviso i momenti difficili della guerra civile in Somalia, non solo è sbagliato, ma ha sviato le indagini. «Chi ha voluto con testardaggine perseguire la strada dei traffici illeciti, senza guardare altrove - osserva Alberizzi -, si è assunto la grave responsabilità di aver impedito che fossero condotte indagini in altre direzioni».

Secondo l’inviato del Corriere della Sera, il delitto sarebbe maturato in un contesto di vendette dei somali contro comportamenti illeciti dei militari italiani che operavano nell’ambito dell’operazione Restore Hope. Violenze sessuali da parte dei nostri soldati, uccisioni di bambini e civili innocenti sono stati la miccia che ha fatto esplodere la rabbia dei somali. «Non sono state mai fatte investigazione su questi “torti” subiti dai somali  - conclude Alberizzi -. Tutti erano intenti a cercare prove per inchiodare la cooperazione o i trafficanti d’armi o quelli di rifiuti. I quali sicuramente hanno responsabilità (e anche grosse in Somalia) ma che hanno poco a che fare con la morte di Ilaria e Miran. Peccato: indagare in altre direzioni avrebbe forse potuto portare alla verità. Se però, con onestà, è la verità che si vuole raggiungere. Se invece testardamente si vuole dimostrare una tesi precostituita, per ottenere, attraverso il sensazionalismo, tra le altre cose, notorietà e fama, beh, allora è proprio un’altra cosa».

Luciano Scalettari crede invece all’ipotesi del complotto ci crede. Inviato di Famiglia Cristiana, da anni si occupa del caso di Ilaria Alpi e Miran Hrowatin sul quale ha scritto due libri (Un omicidio al crocevia per Baldini&Castoldi e 1994 per Chiarelettere). «Dietro a quell’omicidio - spiega - c’è qualcosa di più di un semplice traffico d’armi o di rifiuti tossici. C’è un traffico illecito con la Somalia nel quale sono conniventi pezzi delle nostre istituzioni. O, meglio, un traffico che avveniva con una sorta di silenzio-assenso di strutture dello Stato italiano». Scalettari cita un documento trovato di recente nel quale si evince la presenza di operatori della struttura segreta Gladio a Bosaso, proprio mentre stavano operando Ilaria e Miran. E proprio la presenza dei due giornalisti insospettisce gli agenti di Gladio che, timorosi di possibili rivelazioni, in quei giorni si ritirano.

Nel 2005 il reporter di Famiglia Cristiana si è recato sulla strada Garowe-Bosaso dove stavano lavorando negli ultimi giorni la Alpi e Hrowatin. Sa che i due giornalisti Rai stavano lavorando per far emergere un traffico illecito di fusti con materiale tossico che sarebbero stati interrati proprio sotto la strada. Grazie a sofisticati strumenti di indagine geologici, Scalettari scopre che sotto la strada ci sono reperti metallici, probabilmente proprio i fusti. Raccoglie inoltre numerose testimonianze di operai che, durante la costruzione della strada, interravano quegli stani bidoni. «La nostra intenzione - racconta - era quella di scavare sotto la strada, prendere questi reperti e portarli in Italia per farli analizzare. Il costo dell’operazione però era troppo elevato e non siamo riusciti a trovare nessuno che ci finanziasse. Comunque gli indizi ci sono e sono molti. Le indagini quindi dovrebbero proseguire su questa strada». Ma che cosa risponde alle accuse dei colleghi che non credono a questa tesi? «Inspiegabilmente - conclude - tutti i giornalisti italiani che lavoravano in Somalia insieme a Ilaria Alpi e Miran Hrowatin non si sono mai occupati del caso dopo la morte dei colleghi. Perché? Mi piacerebbe confrontarmi con loro su questo punto».

Enrico Casale

© FCSF – Popoli
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