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Daniel Barenboim: quelle note che uniscono arabi e israeliani
14 ottobre 2011
Daniel Baremboim, israeliano, 69 anni, è stato nominato direttore musicale del Teatro alla Scala di Milano. Di seguito riproponiamo l'intervista, pubblicata sul numero di ottobre di Popoli, nella quale il maestro parla della sua esperienza con la West-Eastern Divan Orchestra, filarmonica da lui fondata nel 1999 insieme all'intellettuale Edward Said, che riunisce giovani musicisti ebrei e musulmani.

«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». È all’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che si ispira il maestro Daniel Barenboim, cui nel 2007 è stato conferito il titolo di «Messaggero di pace delle Nazioni unite», quando pensa al lavoro con la West-Eastern Divan Orchestra, da lui fondata nel 1999 con l’intellettuale palestinese Edward Said. Ogni estate riunisce a Siviglia giovani musicisti ebrei e musulmani, per instaurare un dialogo tra le diverse culture, favorendo un’esperienza musicale comune.

Come è nato e si è sviluppato l’esperimento dell’orchestra?
La cultura favorisce i contatti tra persone, promuovendo la comprensione. È per questo motivo che abbiamo fondato l’orchestra, un forum che offre a giovani israeliani e arabi la possibilità di imparare a suonare insieme la musica. Quando abbiamo iniziato, il 60% dei componenti non aveva mai suonato in un’orchestra e il restante 40 non ne aveva mai sentita una live. Otto anni più tardi quella stessa formazione eseguiva al Festival di Salisburgo le Variazioni per orchestra di Schönberg, uno dei pezzi più difficili del repertorio sinfonico. È stato possibile arrivare a tale risultato grazie a talento e velocità di apprendimento.
L’orchestra poi è anche una magnifica «idea sociale». Ma ciò non basta. L’aspetto sociale può avere un effetto benefico a lungo termine solo se la qualità musicale è rispettata, perché nel momento in cui si è sul palco, il pubblico è sì pieno di ammirazione per il coraggio di questi ragazzi, ma alla seconda nota se ne è dimenticato e vuol sentire buona musica.

Qual è il bilancio «umano» di questa iniziativa?
La prima volta c’erano curiosità, paura, osservazione dell’altro. Certo, perché «l’altro» non lo si era mai visto e non parlo solo di israeliani e siriani, ma anche di arabi di Nazareth con arabi dei Territori, per non parlare dei palestinesi in Medio Oriente e quelli della diaspora. Adesso i musicisti si conoscono, si intendono bene. Hanno imparato a vivere con l’altro senza essere necessariamente d’accordo con lui. Non abbiamo mai detto «per suonare bene insieme dobbiamo essere d’accordo su argomenti politici»; però siamo arrivati a una situazione umanamente importante e cioè che permangono la curiosità di conoscere il punto di vista dell’altro, il desiderio di capire la sua logica, senza sentire l’obbligo di pensarla allo stesso modo. Questo è un passo incredibile, perciò dico sempre che l’orchestra, con tutte le sue imperfezioni, è un modello per la società. Pensiamo se palestinesi, israeliani, arabi accettassero di dialogare, senza sentire l’obbligo di essere d’accordo?

Ha qualche rammarico?
Nell’orchestra suonano israeliani, palestinesi della diaspora, egiziani, giordani, siriani, algerini, spagnoli, turchi, iraniani, ecc. Mi spiace che, per il momento, non possiamo suonare in tutte le nazioni rappresentate. Questo era il sogno originario di Said e mio: speriamo di realizzarlo in futuro.
Paola Babich

© FCSF – Popoli