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Darjeeling: morire di fame tra le colline del tè
16 agosto 2014
Un gruppo di gesuiti del Bengala si sta impegnando nel soccorso ai più poveri tra gli oltre duemila raccoglitori di tè rimasti in condizioni di estrema miseria dopo la chiusura di alcune piantagioni. Il responsabile del Centro sociale dei gesuiti nel Darjeeling descrive la situazione. 

Alla fine di gennaio le Jeep cariche portavano ancora visitatori a festeggiare l’inizio del nuovo anno verso i luoghi panoramici ai piedi dell’Himalaya. L’aria era fresca e tutti erano ignari di ciò che alcuni stavano vivendo. C’era stata una breve agitazione suscitata dai media, dopo che un quotidiano inglese (The Telegraph, 27 gennaio) e un giornale locale avevano dato la notizia shock della morte per fame di dieci persone in tre piantagioni di tè nella zona delle Dooars, le colline del Bengala settentrionale che salgono verso il Bhutan. Ma la notizia era presto svanita dalla memoria: si erano verificate crisi umanitarie ben più gravi tra il 2004 e il 2008; allora si era parlato di più di 470 morti per fame e i dati non ufficiali erano ancora più alti.

La situazione nelle piantagioni di Dharanipur, Surender Nagar e Red Bank, che sono state chiuse di recente, è simile a quella di dieci anni fa nei “tea gardens” di Ramjhora, Dekhelpara e Mujnai. Il mondo di tante famiglie è andato in pezzi dopo che i proprietari hanno abbandonato la produzione. Anche questa volta i lavoratori delle piantagioni isolate non sanno proprio che cosa fare. Alcuni sono sopravvissuti con un pasto al giorno, pochi frutti o radici, foglie o verdure marce. L’espressione del volto di bambini e anziani non può celare la miseria che la malnutrizione infligge all’essere umano.

In questa epoca è difficile credere che la chiusura di un’azienda possa portare alla morte dei dipendenti e delle loro famiglie. Eppure è la realtà in una delle regioni di produzione del tè più famose del mondo. Questa industria nel Bengala settentrionale, tra le colline del Darjeeling e nelle zone del Terai e delle Dooars, ai piedi dell’Himalaya, genera una delle maggiori produzioni del Paese (nel 2012 è stata di 276mila tonnellate). Le piantagioni sono state il pilastro dell’economia nel Bengala del Nord per oltre un secolo e ancora oggi danno lavoro a circa 52mila persone impiegate direttamente o in lavori ausiliari. Ma sono finiti i tempi in cui le piantagioni garantivano la sopravvivenza di migliaia di famiglie.  Negli ultimi tre decenni, che ironicamente coincidono con l’avvento della globalizzazione e delle liberalizzazioni nell’economia indiana, l’industria nazionale ha risentito maggiormente e a patire le peggiori sofferenze sono stati i lavoratori poveri delle piantagioni. Secondo alcuni analisti, i nuovi protagonisti dell’industria del tè, spinti solo dalla ricerca del profitto, non si interessano di migliorare la qualità degli arbusti e hanno scarsa considerazione per i lavoratori: hanno diffuso un infondato senso di crisi nel settore per evitare le proprie responsabilità  sociali di impresa.

Un effetto a cascata di questa crisi è stato quello di lasciare molti raccoglitori allo sbando, con tagli dei salari e pagamenti ritardati. Quando interrompe la produzione, l’amministrazione ritira le forniture di cibo, medicine, elettricità e acqua e tutto ciò che è previsto dal contratto. Molti sono costretti a emigrare per cercare nuovo lavoro altrove anche in condizioni disumane. Alcuni spaccano pietre lungo il corso dei fiumi per cifre irrisorie. Alcune giovani donne, ingannate da falsi intermediari che promettono lavori domestici ben pagati nelle metropoli come Delhi, si trovano in una rete di raggiri da cui non riescono a uscire e alcune sono scomparse da mesi.

Nelle zone delle piantagioni nel Bengala settentrionale i lavoratori e i loro famigliari non hanno molte alternative alla raccolta del tè. Dipendono pesantemente dagli amministratori per la sopravvivenza, hanno salari tra i più bassi di tutta l’India e non hanno una terra dove tornare. I tassi di scolarizzazione delle comunità sono molto bassi (36%) così da restare emarginati anche in un tempo in cui la maggioranza in India sta alzando la testa. Un lavoratore raccoglie in media 25-40 kg di foglie di tè al giorno, che nel mercato al dettaglio fruttano 65 rupie al kg (circa 0,8 euro). Ma ne riceve in cambio solo una piccola parte, per un lavoro estenuante. Nel 2013, dopo molte discussioni tra i rappresentanti degli imprenditori e i sindacati, i salari giornalieri sono saliti dall’equivalente di 0,8 euro a 1,12 (nel Darjeeling) e 1,04 nel Tarai-Dooars. Il salario mensile di un lavoratore a tempo pieno è arrivato a 2280 rupie (28 euro): tropo poco per mantenere una famiglia. Shanti, una donna che vive nella Belgachi Tea Estate, mi ha detto: “Posso dare a malapena un pasto ai miei figli. Ma dove sono i risparmi per il futuro? Sento di non poter uscire dalla povertà”.

L’atteggiamento indifferente dei vari governi locali è nelle false promesse di venire incontro ai bisogni dei lavoratori. Ma produrre un vero cambiamento nelle loro vite è questione ben diversa. In questo momento la situazione sembra destinata a peggiorare perché il futuro del settore è a rischio. Esistono piani di espansione urbana che porteranno allo sfratto di migliaia di residenti delle piantagioni, le paure aumentano e ciò potrebbe compromettere del tutto l’industria del tè. In tale scenario l’unica strada è spezzare le catene che legano alla povertà i raccoglitori e trovare soluzioni realistiche per un futuro migliore fuori dalle piantagioni. Le agenzie governative impantanate in scandali di corruzione da decine di milioni di rupie potrebbero indirizzarne una parte verso il benessere di questa comunità.

Lalit P. Tirkey SJ
Direttore di Hldrc (Human Life Development & Research Centre)
Siliguri, Darjeeling

© FCSF – Popoli