Home page
Webmagazine internazionale dei gesuiti
Cerca negli archivi
La rivista
 
 
 
Pubblicità
Iniziative
Siti amici
Primo piano
Cerca in Primo Piano
 
Diario egiziano - L'inviato di Popoli nel cuore della "primavera araba"
17 ottobre 2011

Arrivato al Cairo la sera del 16 ottobre, il nostro Enrico Casale si fermerà in Egitto per una settimana, visitando la capitale e Alessandria e incontrando una serie di testimoni ed esperti, sia tra la minoranza cristiana, ripetutamente colpita da episodi di violenza, sia tra i musulmani. In attesa di leggere i suoi reportage su Popoli, qui potete trovare, giorno per giorno, qualche flash del suo viaggio, per cercare di capire se, nel Paese più importante del Nord Africa, è ancora primavera...

***

Domenica 23 ottobre

È uno dei simboli più evidenti dell’islam e, per questo motivo, nei Paesi occidentali non è sempre visto con favore e, in alcuni casi (la Francia per esempio), è addirittura stato vietato. In Egitto, il velo che copre il capo delle donne non è un dogma. Molte donne escono per strada a capo scoperto e nessuno le osserva in modo strano o le importuna. «Rispetto a trenta o quarant’anni fa - osserva un religioso cattolico che vive in Egitto da 50 anni - il numero di donne velate è però aumentato molto. Negli anni Settanta e Ottanta la società era più laica e sembrava essersi distaccata da una visione rigorosa dell’islam. Oggi invece quella visione sembra essere tornata e un numero più consistente di donne ricorre al velo». «È vero - ribatte una ragazza cristiana - molte ragazze indossano il foulard. Ma spesso lo fanno non tanto perché sono musulmane osservanti, ma per abitudine o per emulare le amiche. Molti di questi veli sono capi di moda ricercatissimi e vengono abbinati agli altri vestiti secondo i colori e i disegni. In ogni caso non sono solo le cristiane a non indossare il velo. Ci sono anche molte musulmane che non lo indossano».
Ciò che impressiona di più un osservatore occidentale non è tanto l’hijab cioè il velo che copre il capo, ma lascia scoperto il volto, quanto il niqab, cioè il velo che copre il capo e il volto, lasciando scoperti soli gli occhi. L’uso di questo tipo di foulard si sta gradualmente diffondendo non solo nei villaggi, ma anche nelle grandi città: Cairo, Alessandria e Assuan. «La diffusione del niqab - continua il religioso - è forse l’aspetto più preoccupante. Dal punto di vista politico è il segno più evidente dell’avanzata dell’integralismo islamico. È l’equivalente femminile di quello che per i maschi è la barba lunga. Non si sa quanto il velo integrale sia una scelta delle donne o un’imposizione da parte degli uomini. Fatto sta che si sta diffondendo e non solo tra le classi più povere».
«Discriminazioni verso chi non porta il velo? Non direi - osserva la giovane egiziana -. Nelle manifestazioni che hanno portato alla caduta di Mubarak c’erano ragazze velate e altre non velate. Tutte insieme. Non penso che, anche se andassero al potere i Fratelli musulmani, verrà imposto il velo obbligatorio. Per fortuna l’Egitto non è l’Iran».


Sabato 22 ottobre

In giro per il Cairo o per Alessandria non è facile trovare militari. E quei pochi che si incontrano non sono né armati, né hanno l`aria bellicosa. La vera potenza delle forze armate la si sente quando ci si avvicina alle loro installazioni: comandi, caserme, depositi, ecc. Lì spuntano fuori le armi, i mezzi blindati, le tenute da guerra. I militari, in questi mesi di instabilità, tendono a proteggersi. Certo, a differenza della Siria e della Libia, qui non hanno compiuto stragi (fatta eccezione per la repressione della manifestazione organizzata dai copti al Cairo, un incidente sul quale però ci sono aspetti poco chiari) e godono ancora di una certa gratitudine da parte del popolo per il ruolo svolto nella rivoluzione.
Ma tra gli uomini in grigioverde c`è diffidenza rispetto a quanto sta avvenendo nel Paese. Anche perché qui le forze armate si giocano una posta molto più elevata che altrove. In Egitto, esercito, marina e aviazione sono uno Stato nello Stato. Oltre ai tradizionali compiti di difesa della nazione, hanno anche moltissimi interessi economici. Possiedono fabbriche, società, imprese commerciali. Una sorta di holding con le stellette che ha un grande peso (anche se difficilmente quantificabile) sullo sviluppo e sulla crescita del Paese.
Non è un caso che i quattro presidenti che si sono alternati alla guida dell`Egitto, fossero ex militari a partire da Nasser, per continuare con Sadat, Mubarak e per finire con Tantawi, attuale capo della Giunta militare. A loro spettava guidare il Paese tutelando la casta in grigioverde. «Che i presidenti fossero tutti ex militari è vero - spiega un religioso egiziano -, così come è vero che hanno sempre fatto gli interessi delle forze armate, ma non tutti hanno goduto dello stesso consenso. Nasser ha abbattuto la monarchia e ha di fatto regalato l`indipendenza al Paese. Era ed è tuttora amatissimo nel Paese. Sadat ha, in parte, continuato la sua opera. Ha fatto molti errori, ma aveva anche lui un seguito. Mubarak ha trasformato l`Egitto in una dittatura cleptocratica. Tantawi? Non sappiamo molto, possiamo dire solo che faceva parte dell`entourage di Mubarak».
Cosa faranno adesso i militari? Certamente la giunta rimarrà al potere almeno fino al 2013 quando, approvata la nuova Costituzione, si terranno le elezioni presidenziali. Poi il loro ruolo sarà da definire. «Tutti vogliono che i militari rientrino nelle caserme - spiega un giornalista locale - però temo che avranno un ruolo ancora importante in futuro. Non è escluso che per difendere i loro interessi si alleeranno con i partiti fondamentalisti islamici. Difficile prevedere cosa potrà nascere da questa alleanza».

 

Venerdì 21 ottobre

Nelle vie di Alessandria e davanti alle moschee ci sono moltissime bancarelle che vendono bandiere egiziane, insieme a cappellini e gadget con i colori nazionali. Questa mattina sono comparsi anche gadget e bandiere con i colori nero, rosso e verde del Comitato di transizione libico e davanti alle edicole c'erano lunghe code per acquistare i giornali. I quotidiani egiziani hanno aperto a tutta pagina con la notizia della morte del rais libico. Molti di essi avevano la foto del cadavere di Gheddafi a tutta pagina con grandi titoli scritti in rosso. Qui ad Alessandria che, ricordiamolo, dista circa 500 km dal confine con la Libia, non ci sono state manifestazioni di giubilo per le strade né ieri sera, né questa mattina. Però la soddisfazione per la fine del regime libico è palpabile. «È la fine di una dittatura terribile - osserva un signore di mezza età, mentre si appresta a pregare di fronte a una moschea -. Gheddafi era un dittatore spietato e si merita la fine che ha fatto».
Anche i giovani sono della stessa idea. Avvicinato un gruppo di ragazzi e ragazze, chiedo loro cosa ne pensano della fine di Gheddafi. Sorridendo e alzando il pollice ci rispondono in inglese: «Good! Good! Good!». Ma Gheddafi era peggio di Mubarak? «Sono personalità molto diverse - risponde un ragazzo più intraprendente - entrambi erano dittatori che hanno fatto molto male al loro Paese. Entrambi sono stati cacciati dal potere. La nostra speranza è che si affermi la democrazia sia in Libia sia in Egitto».
«Gheddafi ha fatto la fine che meritava - aggiunge un signore che passa vicino ai ragazzi - era pazzo. Un uomo malato non può governare un popolo. La Libia si è liberata di un folle. Speriamo che il vento della Primavera araba, dopo aver spazzato il vecchio, ci porti qualcosa di nuovo. E che questo qualcosa di nuovo abbia il profumo della libertà e della democrazia».

 

Giovedì 20 ottobre

A livello internazionale molti si chiedono quale sarà il destino dell’Egitto se alle elezioni legislative del 28 novembre dovessero affermarsi i partiti legati ai Fratelli musulmani e agli estremisti salafiti. C’è il rischio che il Paese si trasformi in un nuovo Iran? C’è la possibilità che si interrompa l’alleanza decennale con gli Usa? E quale destino avranno gli accordi di pace di Camp David siglati nel 1978 con Israele? «All’estero - spiega Mona Anis, caporedattore del settimanale in lingua inglese Al Ahram Weekly – c’è molta apprensione. Capisco i timori delle cancellerie europee e della presidenza degli Stati Uniti, ma le cose viste dall’interno sono molto diverse». In realtà tutti i sondaggi dicono che i Fratelli musulmani non dovrebbero ottenere più del 40% dei consensi e che le formazioni oltranziste (salafite) non dovrebbero andare oltre il 10%. Quindi i fondamentalisti non dovrebbero controllare il Parlamento. «Non lo controlleranno - continua Mona Anis - ma avranno una forte influenza su tutto il processo legislativo e, di sicuro, non permetteranno che siano approvate norme anti-islamiche. Detto questo il gatto non è così nero come lo si dipinge. I leader dei Fratelli musulmani sono persone pragmatiche, molti sono imprenditori con interessi rilevanti nell’economia (soprattutto nel settore turistico). A loro interessa in primo luogo avere un Paese stabile e con buoni rapporti con le grandi potenze straniere». Non ci sarebbe quindi interesse a rompere le relazioni con gli Usa, dai quali, tra l’altro, arrivano grandi finanziamenti, soprattutto per le forze armate egiziane. «Con Israele - osserva Mona Anis - il problema è diverso. Forse verrà chiesta una revisione dei trattati. L’Egitto farà la faccia dura. Ma se guardiamo bene l’orizzonte mediorientale notiamo che anche l’Arabia Saudita sono decenni che fa dichiarazioni anti-israeliane, ma poi nei fatti non fa nulla contro Gerusalemme. Il nostro Paese si comporterà allo stesso modo. Non penso quindi che scoppierà una nuova guerra contro Israele».
Rimane il problema della minoranza cristiana e della Chiesa copta ortodossa in particolare. Ci saranno discriminazioni? «Le discriminazioni ci sono già - osserva la giornalista - e da anni sono “istituzionalizzate”. Non ci sono copti nei vertici delle forze armate e in passato pochissimi cristiani hanno rivestito cariche ministeriali. Se è vero che ci sono discriminazioni, è vero anche che non c’è mai stata una persecuzione nei loro confronti. I Fratelli musulmani non cambieranno questa situazione. Potrebbero esserci attentati alle chiese? Forse sì, ma non nelle grandi città quanto nei piccoli villaggi nel delta del Nilo o nell’Alto Egitto. Ma credo che anche in questo caso i Fratelli musulmani avranno interesse ad affermare l’ordine».

 

Mercoledì 19 ottobreQuesta mattina siamo stati in piazza Tahrir, il centro delle rivolte che hanno portato alla caduta di Hosni Mubarak. Ci aspettavamo di vedere stazionare ancora manifestanti sotto i gazebo o, almeno, striscioni e manifesti. Niente di tutto questo. Piazza Tahrir è ormai solo una delle tante piazze del Cairo. Forse la più centrale e più nota (anche perché su un lato c’è il Museo egizio più famoso del mondo), ma non c’è traccia degli scontri e delle proteste dell’inizio dell`anno. Solo nelle vie laterali si vedono ancora i murales disegnati dai ragazzi durante i giorni caldi della «primavera araba» e qualche manifesto. Ma nulla più. Ciò ha creato un po’ di delusione in chi scrive. Si aspettava di vedere un movimento ancora attivo, almeno nel suo luogo simbolo. Ma le rivoluzioni, a dispetto di quanto profetizzava Lev Trotsky, difficilmente diventano «permanenti». Più spesso, dopo le prime fasi calde e convulse, rientrano. La popolazione, in Egitto, come in ogni altro Paese del mondo, deve tornare a fare i conti con la propria vita e con le proprie necessità quotidiane.
Però, a ben pensarci, noi abbiamo incontrato la rivoluzione ogni giorno e ogni ora della nostra permanenza qui in Egitto. La rivolta sono i migliaia di giovani che incontriamo per strada, nei bar, nei luoghi di preghiera, sulla metropolitana. Qui i ragazzi e le ragazze sotto i 25 anni rappresentano quasi il 35% della popolazione. Sono state loro le prime «vittime» della dittatura di Hosni Mubarak. La burocrazia immobile, la corruzione, lo sviluppo rallentato hanno reso difficilissimo trovare un lavoro. Non è un caso che il tasso di disoccupazione fra i giovani sia cresciuto dall’8,9% del 1996 al 10,6% del 2006 (ultimo dato disponibile). E quindi non è un caso che la rivolta sia partita e sia stata sostenuta proprio dai giovani. E, tuttora, sono loro gli autentici «controllori» del processo democratico.
È bello sentirli parlare perché nelle loro parole si avverte quell’entusiasmo e quella carica ideale tipica dei ragazzi. «La rivoluzione - spiega Marian, 30 anni, - ci ha tolto da quella cappa opprimente che era il regime di Mubarak e ci ha regalato la libertà. Ora che il popolo egiziano ha scelto la libertà e la democrazia non può più tornare indietro. Lo so che ci sono molti ostacoli sulla nostra strada. Primo fra tutti la crisi economica che costringe alla povertà migliaia di persone. Però il sentiero è tracciato e nessuno, neanche i fondamentalisti islamici, possono farci tornare indietro».
Rames, 22 anni, presente a tutte le manifestazioni in piazza Tahrir (dove è anche stato ferito dalla polizia) va oltre, avventurandosi in un’analisi politica. «Finora chi ha tratto il maggior vantaggio dalla rivolta è stata un’élite. Un’élite che però non era in piazza con noi. Mi riferisco al generale Tantawi e alla sua giunta militare che sta lavorando per mettere gli egiziani uno contro l'altro (laici contro religiosi, copti contro musulmani, musulmani fondamentalisti contro musulmani moderati) e quindi proporsi come l`unica alternativa al caos. Chi, come me, ha partecipato alle manifestazioni deve invece lavorare perché i vantaggi della democrazia raggiungano tutti gli strati della popolazione, anche quelli più poveri. Deve impegnarsi affinché non si passi da una dittatura (quella di Mubarak) a un’altra di matrice militar-fondamentalista».
La rivolta non ha insegnato ai giovani egiziani solo il senso della libertà, ma anche l’enorme potere dei social media (Facebook, Twitter, i blog, ecc.). Una forza nuova che, secondo molti, può trasformare profondamente lo stesso Egitto. «La rivoluzione - spiega - Rahma, 23 anni - dovrà dare una nuova veste all’Egitto. I politici dovranno battersi maggiormente per la giustizia sociale e per eliminare il divario tra le classi sociali. In ciò saranno sempre più utili le nuove tecnologie sia perché permettono la circolazione delle idee democratiche, sia perché aiuteranno a snellire una struttura statale pesantissima che finora ha soffocato l’economia».
La rivoluzione ha però regalato ai giovani un attaccamento speciale al proprio Paese che forse prima non avevano. «Non so quale futuro aspetta il nostro Paese - osserva Marise, 23 anni -, ma sono certa di una cosa: qualsiasi cosa accadrà, non lascerò l`Egitto. Non me ne andrò mai e continuerò a combattere perché anche qui si affermi la democrazia e la libertà».

 

Martedì 18 ottobre

«Se vinceranno i partiti legati ai Fratelli musulmani e alle frazioni estremiste salafite, in Egitto non ci saranno più altre elezioni per molti anni. Per noi cristiani si inaugurerebbe una delle stagioni più buie della nostra storia millenaria». L’analisi del prete copto che incontriamo al Cairo e che chiede l’anonimato non lascia molto spazio all`ottimismo, ma rispecchia il pessimismo che sta attraversando un po’ tutta la minoranza cristiana in Egitto.
Tra i copti ortodossi (ma anche tra alcuni cattolici e protestanti) c’è il timore che la caduta di Hosni Mubarak possa aprire le porte a una nuova dittatura, questa volta di stampo islamico fondamentalista. Non è un caso che la reazione dei copti alla rivolta di gennaio sia stata tiepida. Shenouda III, il patriarca copto, aveva addirittura chiesto alla sua comunità di non partecipare alle manifestazioni. Solo poche centinaia di giovani cristiani sono scesi in piazza sfidando, da un lato, la polizia del presidente e, dall’altro, il veto delle gerarchie ecclesiastiche.
Sotto Mubarak i copti erano oggetto di discriminazioni soprattutto da parte dei fondamentalisti islamici che, però, a loro volta, erano perseguitati dalla polizia. Oggi invece sono l’obiettivo soprattutto dell`esercito che in questi ultimi mesi, secondo gli esponenti copti, sembra essersi «alleato» ai fondamentalisti.
«Sono andato a colloquio da un generale dell`esercito - ricorda il prete copto - e mi ha colpito un particolare: nel suo ufficio aveva sempre la televisione accesa su programmi messi in onda da emittenti legate ai salafiti. Non tutti i militari sono come lui, ovviamente, ma molti sono vicini al fondamentalismo. È anche questo che ci fa paura». Il nostro interlocutore ci mostra il bossolo di un proiettile di un’arma automatica: «Non è un caso che l`esercito durante la tragica manifestazione dei copti che si è tenuta il 9 ottobre abbia sparato ad altezza uomo e abbia ucciso 24 cristiani (sono morti anche alcuni soldati, ma l’esercito non ne ha comunicato il numero) e che a fianco dei militari ci fossero molti salafiti».
Il 28 novembre si terranno le elezioni legislative. Ad esse si presenteranno sia le formazioni nate nel seno della Fratellanza musulmana sia quelle più estremiste di matrice salafita. Non ci saranno invece partiti espressamente copti, ma la minoranza ortodossa concentrerà i suoi voti su tre formazioni liberali di destra fondate da esponenti cristiani copti: «Vita», «Egiziani liberi» e «Verità». Alcuni copti hanno invitato a boicottare la tornata elettorale, «ma il boicottaggio - spiega un giornalista di Coptics United, un sito di informazione cristiano ortodosso - non è una soluzione. Il parlamento infatti dovrà approvare la nuova Costituzione, cio` significa che, senza un`opposizione valida e combattiva, si regalerà loro il Paese. Noi invitiamo tutti ad andare a votare, l`astensionismo è un suicidio».
I copti non temono i musulmani in generale, hanno paura solo dei fondamentalisti. E va detto, per completezza di cronaca, che anche tra i copti esistono fondamentalisti che rivaleggiano in estremismo con i salafiti. «La maggior parte dei musulmani - conclude il sacerdote - è composta da brave persone, moderate. Credono in Dio, nel Corano, e non farebbero mai male a un cristiano. Sono i fondamentalisti che ci fanno paura. Sono loro che assaltano e bruciano le nostre chiese. E noi non vogliamo passare dalla dittatura di Mubarak a quella dei salafiti».

 

Lunedì 17 ottobre

In Egitto tutti hanno un’arma: un fucile, una pistola o, addirittura, un mitragliatore. La passione degli egiziani per le armi non è nuova. Con la caduta del regime di Hosni Mubarak e la crescita dell’instabilità, tutti però hanno voluto armarsi. E, si sa, quando uno ha un’arma, prima o poi è tentato di utilizzarla. «L’altro giorno - racconta un europeo che da anni vive al Cairo - ero in coda in automobile. C’era un grande ingorgo. A un certo punto vedo una moto che sfreccia tra le vetture. Poco dopo arriva un uomo che le corre dietro gridando e imprecando con ogni genere di insulti. A un certo punto, l’uomo che correva trafelato, tira fuori una pistola e si mette a sparare in aria. Le persone, chiuse nelle loro macchine, si guardavano con occhi tra l’incredulo e lo spaventato. Dopo aver esaurito il caricatore, l’uomo ha rimesso la pistola nei pantaloni ed è tornato alla sua automobile».
In città sono sempre più frequenti anche le faide tra famiglie regolate a colpi di pistola. «Due sere fa - racconta un altro europeo - mi stavo avvicinando a casa, quando ho sentito i colpi di una sparatoria. Le armi crepitavano, sembrava di essere in guerra. Per proteggermi, mi sono nascosto dietro a un muro. Gli attimi erano interminabili. Ho aspettato un po’, poi il fuoco è terminato. Dopo qualche minuto sono arrivate alcune autoambulanze e hanno portato via alcuni morti e molti feriti».
Questa crescita della violenza è il risultato della quasi scomparsa dei poliziotti per le strade. Dopo la dura repressione ordinata da Mubarak nei primi giorni della rivolta, nel controllo dell’ordine pubblico alla polizia è subentrato l`esercito. Molti poliziotti sono stati congedati. Per molti mesi, non è esistito più un vero corpo di polizia. Solo nelle ultime settimane è iniziato l’arruolamento di giovani poliziotti. La maggior parte di essi sono però impegnati nel controllo del traffico più che nella gestione dell’ordine pubblico. Così si ripetono le sparatorie. «Di notte - avverte un europeo che conosce bene il Cairo - è meglio non andare troppo in giro. Il rischio di furti e di sparatorie è aumentato. Meglio stare a casa».

 

Domenica 16 ottobre

«Hai ancora intenzione di andare al Cairo? A mio parere puoi farlo tranquillamente. Non correrai nessun pericolo». Ahmed, 61 anni, ingegnere egiziano, copto, da piu di 30 anni in Italia, ma con frequenti ritorni nel suo Paese, con una telefonata a poche ore dalla partenza ci tranquillizza.
Le notizie che gli arrivano da parenti e amici - che pure sono scossi dalla dura repressione della manifestazione di una settimana fa da parte della polizia - lo fanno essere ottimista e un po' di quell'ottimismo lo trasmette anche a noi.
Lo stesso fa Mohammed, 53 anni, musulmano, anche lui «pendolare» tra Italia (dove ha lavoro) ed Egitto (dove ha la famiglia) da vent'anni. Lo abbiamo conosciuto sul volo da Milano al Cairo: «La repressione è stata dura - osserva -, ma qui c'entra più la politica che la religione. Lo vedrai tu stesso al Cairo, copti e musulmani vivono vicini e senza problemi. Siamo un unico popolo».
Dopo aver letto le cronache della repressione, qualche dubbio rimane. Anche se è vero che, al nostro arrivo, Il Cairo ci dà un'impressione sorprendente. Ci aspettavamo una città blindata, piena di poliziotti e militari. Ma non ne abbiamo visti, né all'aeroporto né sulla strada tra l'aeroporto e la comunita religiosa in cui siamo stati ospitati. Le strade sono caotiche, come (o forse più) di quelle di altre capitali africane. La gente per strada sembra rilassata e le comunità sembrano convivere serenamente. Donne velate passeggiano insieme ad amiche e coetanee con il capo scoperto. Uomini con le barbe fluenti, vestiti nelle loro lunghe jellaba, parlano con amici sbarbati e vestiti all'occidentale.
Il primo impatto con l'Egitto, sotto i riflettori del mondo per l'evoluzione che potrà prendere la rivolta partita all'inizio del 2011, è tranquillizzante. Vedremo nei prossimi giorni se questa prima impressione sarà confermata.

Enrico Casale

 

 

© FCSF – Popoli