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Il ritorno dei gesuiti: 200 anni fa la "ricostituzione"
29 luglio 2014
Il 13 agosto 1773 papa Clemente XIV decretò lo scioglimento della Compagnia di Gesù raccogliendo i pressanti inviti delle monarchie borboniche. Ma l’Ordine sopravvisse in alcuni Regni e il 7 agosto 1814 Pio VII lo ricostituì riconoscendo la validità dell’ideale di Ignazio. La soppressione e la ricostituzione nel racconto di Guglielmo Pireddu, storico e gesuita (puoi leggere le altre puntate della storia della Compagnia, da Ignazio a papa Francesco, sull'edizione cartacea di Popoli, da gennaio 2014

Se volessimo individuare
le cause della soppressione della Compagnia di Gesù consultando il «breve» apostolico Dominus ac Redemptor (il documento con il quale papa Clemente XIV ne decretò lo scioglimento) resteremmo delusi. Vi troviamo l’elenco di casi in cui la Santa Sede ricorse a misure analoghe verso altri ordini religiosi, si ricordano le controversie che videro coinvolta la Compagnia, ma si tratta prevalentemente di comportamenti individuali, non sufficienti a motivare una scelta simile. Forse solo il paragrafo 22 può essere indicativo: «Ogni giorno risuonarono più alti i clamori e le lagnanze […]. Il danno e il pericolo giunsero a tal punto, che […] i Nostri carissimi figliuoli in Cristo i Re di Francia, di Spagna, di Portogallo e delle Due Sicilie sono stati costretti a licenziare ed espellere i Soci dai loro Regni […]; ritenendo che questo fosse l’estremo rimedio contro tanti mali». Il testo è illuminante: si sostiene che, a causa delle continue lagnanze pervenute dai sovrani borbonici, il Pontefice si trovò costretto, pur di riportare la pace nella cristianità, a sopprimere l’Ordine tanto vituperato. È esattamente così? Se anche fosse, ci troveremmo di fronte a una ragione di natura prettamente politica, non pastorale.

A questo punto è d’obbligo entrare nel merito della questione, facendo un salto indietro, giacché per comprenderne il contesto è necessario rivedere le singole espulsioni che precedettero e prepararono la soppressione universale.
Occorre, dunque, secondo la linea prospettata dallo storico gesuita Joseph Benítez, esaminare un insieme di concause di tipo ideologico, sociale, politico. In questo quadro vanno distinte le cause generali da quelle particolari in ciascuno dei singoli Stati teatro dell’espulsione. Le cause generali sono riconducibili al giurisdizionalismo monarchico, alleatosi con lo spirito illuministico; questi elementi cercarono di erodere la giurisdizione della Chiesa, per cui la vicenda va inquadrata all’interno del deterioramento nei rapporti Chiesa-Stato.

Invece, le cause particolari vanno identificate nelle querelles che coinvolgevano la Compagnia, cioè le controversie sulla Grazia e sul Giansenismo, sul monopolio pedagogico dei gesuiti, sul probabilismo, sui riti malabarici e cinesi, sul ruolo dei confessori di corte, le tesi sul regicidio e la «polemica» antigesuitica. Inoltre, in esse è opportuno distinguere tra cause strutturali e congiunturali. Ad esempio, cause strutturali furono la riforma amministrativa della monarchia spagnola in senso regalista o la mentalità gallicana della Chiesa francese. Invece cause congiunturali furono l’attentato a Giuseppe I nel Portogallo, il crac La Valette in Francia, e una rivolta popolare in Spagna. A questi fattori va aggiunta l’ostilità delle corti borboniche verso un ordine religioso che sfuggiva al loro controllo.

La somma di tutte queste concause spiega l’avversione generale verso la Compagnia. A questo punto, risultò determinante l’influenza che le corti borboniche esercitarono su Clemente XIV, in un momento estremamente delicato.

ATTRITI ED ESPULSIONI
Prima di esaminare la soppressione in sé, vanno ricordate le espulsioni locali dei gesuiti. La prima avvenne in Portogallo nel 1759 a opera del primo ministro, futuro marchese di Pombal. Le ostilità iniziarono con la revisione dei confini fra Brasile e Paraguay, con gravi ripercussioni sulle reducciones gesuitiche (cfr Popoli, n. 3/2014). Seguì una produzione libellistica in cui si denunciava la rapacità dei gesuiti, una dura polemica con il padre Gabriele Malagrida; aggiungiamoci l’attentato al re Giuseppe I, al quale fu fatto credere che i gesuiti ne fossero gli ispiratori. Fu così che Pombal ottenne il decreto di espulsione dei gesuiti dell’Assistenza di Portogallo. Non tutti, però, ebbero la fortuna di essere espulsi e di riparare nello Stato pontificio; 27 di essi furono immediatamente giustiziati, altri 88 si spensero durante la detenzione in carcere.

Dopo il Paese lusitano fu la volta della Francia, dove la Compagnia aveva uno stuolo di nemici: enciclopedisti, gallicani e giansenisti. La miccia fu accesa dallo scandalo finanziario provocato dal gesuita Antoine La Valette, superiore della missione della Martinica. Nel processo che si aprì fu accettata la giurisdizione del Parlamento di Parigi. Questo, ostile alla Compagnia, ne approfittò per intentarle un processo politico-religioso. Furono condannate le opere di diversi teologi gesuiti e si ordinò la chiusura dei 105 collegi. Fu in quest’occasione che il cancelliere propose alla Compagnia di salvarsi a patto di riformarsi in senso «gallicano». La proposta sarebbe stata rifiutata a Roma da Clemente XIII con la famosa (ma leggendaria) frase: «Sint ut sunt, aut non sint» («Siano come sono o non siano»). Si giunse così al decreto di scioglimento della Compagnia in Francia nel dicembre 1764.

In Spagna l’espulsione giunse inaspettata nel 1767. Fu naturale chiedersi come mai Carlo III, estimatore della Compagnia, avesse assunto un atteggiamento così ostile. Oggi la ricerca storica ha individuato una cerchia di uomini, vicini al sovrano, che ne orientò le decisioni. In Spagna va rilevato poi un forte isolamento ecclesiastico della Compagnia, causato dall’atteggiamento eccessivamente trionfalistico dei gesuiti.

La scintilla che fece scoppiare l’incendio fu una protesta popolare. Riunito il Consiglio di Castiglia, il conte di Campomanes presentò al re il Dictamen Fiscal, un documento in cui s’insinuava la tesi che i gesuiti fossero gli istigatori della rivolta, e che la struttura della Compagnia fosse incompatibile con la monarchia. Emesso il decreto di espulsione, l’esercito arrestò i gesuiti delle 142 comunità spagnole e li imbarcò con destinazione Civitavecchia. Avvenne che Clemente XIII, per protestare contro l’espulsione, negò lo sbarco; i gesuiti furono allora relegati a Bonifacio in Corsica, dove dimorarono più di un anno in condizioni avverse, fin quando fu loro concesso di riparare negli Stati pontifici.

A seguire, anche le altre corti borboniche emisero decreti analoghi. Così furono espulsi dal Regno delle Due Sicilie (1767) e, in seguito, dal Ducato di Parma e Piacenza e da Malta (1768). In pratica, in Europa, nel giro di pochi anni, i gesuiti si ritrovarono presenti unicamente nel Regno d’Austria, in Polonia (dove la compagnia fu dissolta nel 1772), nel Regno di Sardegna, nella Repubblica di Venezia, nelle corti tedesche e nei cantoni svizzeri, oltre che, ovviamente, nello Stato pontificio.

LA SOPPRESSIONE…
Clemente XIII mantenne un atteggiamento di rifiuto delle richieste borboniche. Sennonché, morto improvvisamente il Papa nel 1769, i Borbone considerarono elemento imprescindibile per l’accettabilità di una candidatura al papato che il prescelto possedesse sentimenti avversi ai gesuiti; perciò i loro ambasciatori esercitarono pressioni per ottenere l’elezione di un candidato con queste caratteristiche.

Fu così eletto il cardinal Lorenzo Ganganelli, francescano conventuale, che prese il nome di Clemente XIV. Questi intuì che non era Pontefice solo dei Regni borbonici, ma anche di Paesi in cui la Compagnia era stimata e che demolirla avrebbe comportato ripercussioni. Il che spiega i quattro anni intercorsi tra l’elezione papale e la soppressione. Anni in cui la situazione politica mutò, con l’indebolimento delle monarchie filo gesuitiche. Si aggiunga la pressione incessante dell’ambasciatore madrileno, José Moñino Conte di Floridablanca, e si giunse così alla redazione del breve atto di soppressione, Dominus ac Redemptor, firmato dal Pontefice il 13 agosto 1773.

Come già accennato, nel documento si sostiene che la Compagnia di Gesù, fin dal suo nascere, fu coinvolta in vari contrasti. Non si tralascia inoltre di menzionare le polemiche teologiche e le accuse d’ingerenza negli affari politici. Compare un elenco delle occasioni di tensione che si ebbero tra la Compagnia e i Pontefici. Infine si insinua la tesi che i sovrani si videro costretti a espellere i gesuiti quale unica soluzione.

Il breve apostolico desta diverse perplessità: l’abbandono a un destino penoso di uomini che avevano dedicato la vita alla difesa del Papato, il fatto che il Papa sia ricorso a un breve apostolico piuttosto che a una bolla, l’assenza di qualsiasi consultazione canonica, la mancanza di qualsiasi accenno a benemerenze dell’Ordine; compare, invece, il divieto di non commentare in alcun modo il breve apostolico.

A ben vedere, non emergono quelle prove inoppugnabili che ci si aspetterebbe di trovare. Sembrerebbe che l’Ordine sia soppresso non per reale colpevolezza, bensì per recuperare il consenso pontificio tra i sovrani cattolici. Tuttavia, questa non è una prova della perversione dell’Ordine, ma solo una motivazione politica.

Il fatto poi che il breve apostolico non fosse promulgato universalmente, ma ne venisse demandata la notifica tramite i vescovi, fece sì che alcuni sovrani si avvalessero dei loro poteri di giurisdizione per vietarne la promulgazione. Il che permise la continuità della Compagnia di Gesù nella Russia Bianca (dove, grazie alla zarina Caterina II, fu preservato quel nucleo che avrebbe poi ricomposto la Compagnia) e in Prussia.

Ma qual era la consistenza della Compagnia soppressa? Abbiamo la stima del 1749: in quel momento essa contava 22.589 membri, sparsi in 1.180 residenze in tutto il mondo, da cui dipendevano 669 collegi, 273 stazioni missionarie, 176 seminari, 1.277 chiese.
Senz’altro gli ambiti maggiormente colpiti furono le missioni (la Compagnia con i suoi cinquemila missionari era l’Ordine più impegnato su questo fronte), quello della formazione del clero (seminari) e l’educazione della gioventù (collegi).

Ragionando sui dati a disposizione, s’intuisce che la cacciata dei gesuiti dai possedimenti spagnoli comportò che 500mila indigeni rimasero senza supporto spirituale in Sudamerica e nelle Filippine. Anche le espulsioni portoghese e francese avevano procurato seri problemi alle missioni in India, Brasile, Macao, Quebec, Louisiana e nelle colonie africane. Stime precise è impossibile farne, si può desumere che, data la mancanza di altri religiosi che potessero sostituire i gesuiti, centinaia di missioni furono abbandonate.

…E LA SOPRAVVIVENZA
In Prussia
si mantenne una presenza dei gesuiti, ma solo sino al 1776, anno in cui fu concesso il placet alla pubblicazione del breve apostolico. Più rilevante fu invece la persistenza in Russia. Qui la spartizione della Polonia aveva «portato in dote» circa 200 gesuiti. L’imperatrice Caterina II stimava il loro apostolato culturale, per questo motivo si rifiutò di promulgare il breve apostolico. Il provinciale Czerniewicz consultò il pontefice Pio VI, nel frattempo succeduto a Clemente XIV, sul da farsi. La risposta papale rappresentò una tacita approvazione della presenza dei gesuiti. In seguito Czerniewicz, nominato vicario generale, ampliò il nucleo russo della Compagnia, tramite l’ammissione di diversi ex gesuiti. Nel 1783 ottenne una triplice approvazione orale circa l’esistenza di questo nucleo della Compagnia. In seguito, sotto il nuovo zar Paolo I, i gesuiti ottennero dal Pontefice il 7 maggio 1801 con il breve Catholicae fidei il primo riconoscimento ufficiale della loro esistenza.

Per quanto riguarda l’Italia occorre ricordare che già dal 1793 si era costituita nel Ducato di Parma una Viceprovincia annessa alla Provincia russa, dal 1796 guidata da padre Panizzoni. Il primo ristabilimento ufficiale si ebbe nel Regno delle Due Sicilie con il breve Per alias (1804). Sotto la guida del nuovo provinciale Pignatelli i gesuiti italiani si recarono a Napoli ristabilendovi la Compagnia. Cacciati da Napoli nel 1806, si stabilirono a Roma.
Dopo la morte di Pio VI (1799) gli successe Pio VII; questi poté rientrare dall’esilio a Roma nel maggio 1814 e subito si attivò per il ristabilimento della Compagnia. Il 7 agosto 1814 fu così emanata la bolla Sollicitudo omnium ecclesia rum (che decreta la ricostituzione della Compagnia di Gesù in tutti gli Stati). Interessante notare le motivazioni della ricostituzione. Emerge infatti come il Pontefice la pensi in funzione «restauratrice» per avvalersi di «rematori forti ed esperti» da opporre al liberalismo anticlericale. Il che spiega come mai, almeno in Europa, la Compagnia ottocentesca sia stata caratterizzata da un orientamento prettamente conservatore.

Secondo lo storico Giacomo Martina la soppressione dei gesuiti costituì una vittoria del regalismo giurisdizionalista. L’attacco contro la Compagnia fece parte di un disegno volto a subordinare la Chiesa al potere assolutista. Jean Lacouture propone un’interessante chiave di lettura, individuata nell’universalismo gesuitico. La Compagnia fu infatti sempre connotata da un’impostazione internazionalista (mai Ignazio pensò di farsi portavoce delle istanze iberiche!). Quest’autonomia gesuitica cozzava con quella concezione secondo la quale, sotto l’insegna del nazionalismo, si celava la pretesa di controllare gli aspetti interni della vita ecclesiastica. Da questo punto di vista la Compagnia presentava un aspetto moderno di superamento degli interessi nazionali, andando contro le istanze centralizzatrici dei sovrani assolutisti.

In questa lotta, tesa a indebolire l’autorevolezza della sede petrina, era indispensabile abbattere i paladini dei diritti papali: i gesuiti. Che poi i mandanti siano stati quei sovrani di cui la Compagnia veniva accusata di acquiescenza è un altro aspetto paradossale della vicenda.
Dall’esame delle concause che condussero alla soppressione, risulta semplicistico individuare in un unico agente il movente della stessa. La Compagnia si trovò ad affrontare nemici tanto disparati, che deposero le loro inimicizie per fare fronte comune per la sua dissoluzione. Tuttavia fu con la sua dissoluzione che si avvertì quanto l’ideale di Ignazio fosse ancora valido, attuale, e meritevole di una completa riabilitazione, nella Chiesa e fuori da essa.
Guglielmo Pireddu SJ
© FCSF – Popoli