Home page
Webmagazine internazionale dei gesuiti
Cerca negli archivi
La rivista
 
 
 
Pubblicità
Iniziative
Siti amici
Primo piano
Cerca in Primo Piano
 
Islam italiano, cercasi imam
17/02/2014
L’imam ha un ruolo centrale nell’assistenza spirituale dei musulmani. Nel nostro Paese però sono ancora poche le occasioni di formazione per queste guide e manca una regolamentazione a livello nazionale. Il rischio è che non siano preparate a «leggere» l’islam alla luce della cultura italiana. Con il pericolo di derive fondamentaliste. Una parte dell'inchiesta pubblicata sul numero di Popoli di febbraio.


«L’islam italiano è un fenomeno recente
, che è nato e si è sviluppato parallelamente alla crescita dell’immigrazione nel nostro Paese. È un mondo magmatico, in divenire, ancora fortemente legato alle comunità nazionali di riferimento o alle grandi organizzazioni islamiche internazionali. Quindi anche quando si parla di imam, del loro ruolo e della loro formazione, bisogna sempre tenere presente una certa complessità dell’ambiente di riferimento». Stefano Allievi, docente di Sociologia nell’Università di Padova e uno dei più attenti osservatori del mondo islamico europeo, mette in guardia chi si avvicina al tema delle guide religiose musulmane.
Una figura delicata, quella dell’imam, che non può essere assimilata a quella del sacerdote cattolico o del rabbino, ma che è ugualmente centrale nel mondo islamico e che può acquisire in futuro un ruolo ancora più importante. Molti esperti scommettono proprio sugli imam per costruire un islam che sappia radicarsi nel nostro Paese inculturandosi nella realtà italiana ed europea.

COLUI CHE STA DAVANTI
Ma chi è l’imam?
Nell’islamismo sunnita, secondo la definizione che ne dà l’Enciclopedia Treccani, è il sovrano della monarchia universale, musulmana, ossia il califfo dei musulmani. Per gli sciiti invece sono imam solo quelli che essi considerano come legittimi monarchi per diritto divino, cioè Ali e i suoi discendenti in linea retta maschile sino a quello che è misteriosamente scomparso e riapparirà in futuro. «Però - spiega don Giampiero Alberti, collaboratore sui temi islamici del Servizio ecumenismo e dialogo dell’arcidiocesi di Milano - tradizionalmente l’imam è colui che dirige la preghiera rituale in comune, ufficio che può essere tenuto da qualsiasi musulmano conoscitore del rituale e non implica alcun ordinie sacro. Nei secoli passati veniva scelto tra le persone più carismatiche e integre perché era colui che “stava davanti” agli altri fedeli durante la preghiera e doveva dare loro l’esempio. Successivamente, la sua figura ha assunto la connotazione più ampia di sapiente della comunità che dà consigli spirituali e giuridici ai fedeli».

Non si sa quanti imam operino nel nostro Paese, su questo aspetto non esistono statistiche ufficiali. Si può però fare una stima: in Italia sono attive circa 800 tra moschee e sale di preghiera e si presume che ognuna di esse abbia un imam. Spiega Nibras Breigheche, giovane teologa musulmana che vive a Trento, membro del direttivo dell’Associazione islamica italiana degli imam e delle guide religiose: «Moschee e centri islamici sono quasi sempre sedi di associazioni culturali e religiose che, come tutte le associazioni, hanno un consiglio direttivo che le gestisce. Il presidente può essere lui stesso un imam o una guida religiosa. Spesso, però, ha una sua attività lavorativa e quindi non si dedica al ruolo a tempo pieno. Ancora oggi in molti casi gli imam sono volontari che per vivere devono fare anche un altro lavoro».
Gli imam svolgono i mestieri più disparati: dirigenti d’azienda, funzionari pubblici, impiegati, liberi professionisti. In molti casi sono commercianti che gestiscono macellerie halal, piccoli supermercati con prodotti etnici, librerie islamiche. Nella maggior parte dei casi hanno un rapporto informale con la comunità di riferimento. Non ci sono contratti, ma solo accordi verbali e, a volte, neppure quelli. «Sono persone che spendono il loro tempo e, molto spesso, le loro risorse economiche per la comunità - continua Allievi -. È un impegno a livello di volontariato. Capita che, in alcune comunità più grandi, questi imam abbiano rimborsi spese per la loro attività. Ma non sempre avviene».

GUIDE «IMPORTATE»
Esistono però moschee e centri islamici che hanno maggiori disponibilità economiche e che si possono permettere di far venire dall’estero una persona con una formazione e un’esperienza che le permetta non solo di guidare la preghiera, ma anche di offrire ai fedeli un’assistenza spirituale integrale. «Questi imam “importati dall’estero” - osserva Pao­lo Branca, docente di Islamistica e lingua araba nell’Università Cattolica di Milano - arrivano da Stati nordafricani o mediorientali. Solitamente le singole comunità islamiche sono formate da persone che giungono dagli stessi Paesi. Quindi una comunità di marocchini che vuole “assumere” un imam probabilmente si rivolgerà a una figura marocchina. Lo stesso avviene per siriani, egiziani, tunisini, ecc.». «Il loro livello culturale è vario - aggiunge Anwar Annihmi, imam presso il Consiglio islamico di Verona -: alcuni hanno studiato Teologia islamica presso le facoltà di studi islamici (come al-Azhar al Cairo o al-Zaytuna a Tunisi, ndr), altri sono titolari di un dottorato. A mio parere dovrebbe essere definito imam solo chi ha compiuto un percorso di studi universitari».

Questi imam quasi sempre arrivano in Italia senza conoscere la lingua e senza sapere nulla della nostra storia e delle nostre tradizioni. I loro sermoni sono quindi poco adatti al contesto culturale. «La loro parola - osserva Paolo Naso, docente di Scienza della politica nell’Università di Roma ed esperto di dialogo interreligioso - ha un grande peso in materia rituale e di esegesi coranica e ne fa un riferimento essenziale della comunità, la guida in grado di orientarla sotto il profilo teologico, morale e culturale. Per una comunità composta in massima parte da immigrati talvolta poco o nulla integrati nel contesto europeo, si tratta di una funzione molto delicata. Si pensi ai casi di imam scoperti a inneggiare alla guerra santa contro ebrei e cristiani o collettori di fondi per i gruppi fondamentalisti».

Ma, al di là dei casi più estremi di imam fondamentalisti che sono stati arrestati ed espulsi dall’Italia (una decina in tutto), esiste un problema di fondo: questi imam, estranei alla cultura europea, quale contributo possono offrire allo sviluppo di un islam italiano? E, in particolare, quale messaggio possono dare alle seconde generazioni che, a differenza delle prime, hanno legami più flebili con i Paesi di origine? «Il rischio - osserva Paolo Branca - è che quanto dicono sia inadeguato al contesto in cui sono inseriti. A volte parlano di argomenti interpretandoli alla luce delle culture dei loro Paesi di origine. Si creano quindi sfasature e polemiche. Senza arrivare agli eccessi dei fiancheggiamenti ai movimenti terroristici, basti citare il caso di un imam del Nord Africa che la scorsa estate ha scatenato una forte polemica con la comunità ebraica. Questi sono boomerang che si abbattono sull’intera comunità islamica italiana. Non solo, ma i giovani, nati e cresciuti qui, non li seguono più perché nei loro messaggi non riconoscono i valori culturali che hanno appreso in Italia».

Nasce quindi l’esigenza di una formazione che sappia offrire a imam e membri delle comunità islamiche quegli strumenti indispensabili per comprendere la realtà italiana e in essa muoversi favorendo il dialogo interreligioso e l’integrazione. Yahya Pallavicini, imam della Comunità religiosa islamica (Coreis), sostiene che «la coscienza di questa situazione ha sempre spinto la nostra associazione a non inseguire i criteri politici e accademici adottati nella formazione degli imam in Africa, Medio Oriente o in Asia. Noi cerchiamo di non confondere la formazione dei ministri di culto musulmani con la politica, perché si corre il rischio di esasperare sia il pregiudizio sull’islam come religione estranea rispetto al percorso virtuoso già vissuto dall’ebraismo e dal cristianesimo, sia lo stereotipo dei musulmani come stranieri, immigrati, extracomunitari invece che alla nostra vera natura di credenti nel Dio di Abramo».
Proprio il Coreis non solo ha dato vita a un corso biennale di formazione teologica per approfondire le fonti della dottrina islamica, ma ha organizzato sessioni di studio sul pensiero occidentale e corsi per preparare i ministri di culto musulmani a un ruolo di mediazione giuridica, scolastica, sanitaria e come consulenti delle istituzioni in materia di sicurezza.

Seminari su temi teologici, rivolti sia a imam provenienti dall’estero sia a quelli che sono cresciuti in Italia, sono stati organizzati nel 2012 e nel 2013 anche dall’Associazione islamica italiana degli imam e delle guide religiose (nata nel 2011). Altri vengono organizzati dai singoli centri islamici e da associazioni come l’Ucoii (Unione delle comunità islamiche d’Italia). «Dal punto di vista della formazione - aggiunge Allievi - si sta iniziando a fare qualcosa. Ciò è positivo, anche se si tratta ancora di iniziative episodiche e di breve durata».

DAI SEMINARI AL MASTER
Parallelamente, in ambito universitario sono nate due iniziative molto seguite. Dal 2010, il Forum internazionale democrazia e religioni (Fidr), che ha sede nell’Università del Piemonte orientale, ma al quale collaborano anche l’Università dell’Insubria (Como), quella di Padova, la Statale e la Cattolica di Milano, organizza seminari residenziali che durano quattro o cinque fine settimana. Vi partecipano i dirigenti di secondo livello (cioè i membri delle associazioni o delle comunità islamiche, non i leader religiosi di primo piano che hanno già una propria formazione); molti sono giovani, di entrambi i sessi e di provenienze diverse (non solo arabi). I temi trattati nei corsi e nei convegni sono i più vari: dalle politiche di Welfare alla filosofia politica, dal diritto canonico all’economia.

Nello stesso anno, l’Università di Padova ha varato un master che, nel 2013, è stato preso in carico dallo stesso Fidr. «Il master - osserva Allievi, che è tra i promotori dell’iniziativa - non è e non vuole essere una facoltà di Teologia. La formazione teologica è di competenza dei musulmani. Le nostre lezioni intendono invece offrire nozioni sulla società italiana e su come muoversi in essa. Sono insegnamenti pratici che riguardano il dialogo interreligioso, i rapporti con i media, le relazioni con le istituzioni, ecc. Sia il master che i corsi del Fidr scommettono su una formazione che favorisca l’integrazione e lo svilupparsi di un islam che sappia essere parte integrante del nostro Paese».
L’esigenza di formare gli imam è sentita anche in altri Paesi europei. In generale esistono tre tipologie di percorsi di formazione: 1) le strutture di alta formazione organizzate da musulmani per musulmani; 2) le cattedre o i master, finanziati da governi islamici o organizzazioni islamiche, sui temi legati all’islam nelle università (aperti a cristiani, laici e musulmani); 3) i corsi, nati per impulso di università, con l’idea di creare luoghi di formazione non prettamente teologici, ma che possano aiutare a formare gli insegnanti di religione islamica, i cappellani nelle carceri, negli ospedali, ecc.

In Francia, per esempio, il primo corso di studi universitari è nato, per iniziativa dell’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia, nell’Università di Château-Chinon. Sempre in Francia, con la presidenza di Nicolas Sarkozy, è stata affidata all’Institut Catholique l’organizzazione di corsi per imam. In Belgio sono stati organizzati seminari per imam e leader delle associazioni islamiche nell’università di Lovanio. In Inghilterra si tengono sessioni di studio organizzate da vari organismi religiosi non solo arabi per esempio, dalle comunità pachistana e indiana. Anche università prestigiose, come Oxford, hanno insegnamenti legati all’islam.

«La Chiesa cattolica - conclude don Alberti - guarda con favore alle iniziative di formazione per imam. Più la loro preparazione (e la nostra, come cattolici) sarà seria e più sarà serio e proficuo il dialogo interreligioso. Un dialogo che si terrà sul comune terreno della spiritualità, libero da condizionamenti e pregiudizi».
Enrico Casale


© FCSF – Popoli