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Kenya, l'incognita etnica sulle elezioni
6 marzo 2013
Considerato a livello internazionale un pilastro della stabilità nell’Africa orientale, il Kenya nel 2007 e nel 2008 ha vissuto una profonda crisi politica interna culminata nei violenti scontri seguiti alle elezioni presidenziali e parlamentari che si sono tenute il 4 marzo. La nuova tornata elettorale ripropone gli stessi interrogativi di allora legati ai delicati equilibri tribali. Popoli.info ne ha parlato con Federico Battera, docente di Sistemi politici africani nell'Università di Trieste.

Che cosa rappresenta oggi il Kenya negli equilibri dell’Africa orientale?

Il Kenya rappresenta o dovrebbe rappresentare un fattore di stabilità in una regione instabile come l’Africa orientale. Un ruolo fondamentale riconosciuto e sostenuto anche dalla comunità internazionale. Non è un caso che nel 2007 proprio la comunità internazionale intervenne per porre fine agli scontri post elettorali. Kofi Annan mediò tra gli allora candidati Mwai Kibaki e Raila Odinga risolvendo una crisi che rischiava di degenerare in conflitto aperto. Non è neppure un caso che Nairobi sia la sede di alcune organizzazioni internazionali che operano in Burundi, Ruanda, Somalia, Sudan. Infine, il Kenya partecipa, inizialmente da solo poi nell’ambito del contingente Amisom, al processo di pacificazione e di stabilizzazione della Somalia. Anche in questo contesto a Nairobi viene conferito un ruolo importante.

Questo suo ruolo internazionale non rischia di essere compromesso dalla forte instabilità interna del Paese?
L’instabilità politica è certamente un fattore di fragilità. Il Kenya è sempre riuscito a trovare un proprio equilibrio politico, ma solo dopo aver vissuto momenti di intensa conflittualità interna molto profonda. però sono sempre prevalse le forze centripete rispetto a quelle centrifughe e così il Kenya non è mai sprofondato in una crisi profonda come la vicina Somalia. Il collasso è sempre stato evitato.

Il Kenya quali interessi persegue come nazione?
Nairobi difende innanzi tutto la sua coesione interna. Nel Paese vive una comunità islamica che rappresenta circa il 10% della popolazione. I musulmani sono concentrati in due delle otto province: quella di Mombasa (sulla costa) e quella al confine della Somalia (Oltregiuba). Evitare che si diffonda il fondamentalismo significa per i politici keniani preservare l’unità nazionale. A queste ragioni politiche vanno aggiunte quelle economiche. Il Kenya ha un’importante industria turistica che è fonte di cospicue entrate in valuta estera. Il terrorismo o, comunque, l’instabilità mettono a rischio la ricchezza che deriva da questo comparto.

E quali interessi difende a livello internazionale?
Nell’Africa orientale da anni si sta progettando una sorta di unione doganale e monetaria. Di questa unione farebbero parte, oltre al Kenya, anche Burundi, Sud Sudan, Tanzania, Uganda. E Nairobi avrebbe un ruolo centrale sia perché è il più sviluppato dal punto di vista economico e strutturale sia perché ha solidi rapporti internazionali (con la Gran Bretagna e l’Europa, ma anche con gli Stati Uniti).

Può tracciare un brevissimo profilo dei due candidati alle elezioni presidenziali?
Gli schemi destra-sinistra non funzionano bene nelle letture della politica africana. Se li dovessimo però applicare al Kenya potremmo dire che Raila Odinga è più a sinistra e Uhuru Kenyatta più a destra.
Entrambi sono figli di due leader politici protagonisti della lotta di indipendenza: Yomo Kenyatta, primo presidente del Kenya, e Jaramogi Oginga Odinga, ex vice premier. E quindi entrambi provengono da consolidate tradizioni politiche familiari.

Quale ruolo giocano gli equilibri tribali in queste elezioni?
La lettura etnica della politica keniana continua ad avere una sua importanza. Kenyatta è un kikuyu, il gruppo etnico più importante anche se non ha la maggioranza assoluta. Durante il regime di Daniel arap Moi è stato emarginato dalla politica, ma era riuscito a conquistarsi un'importante fetta del potere economico. Odinga appartiene all’etnia luo. I luo, pur avendo partecipato da protagonisti alla lotta di indipendenza, sono sempre stati relegati ai margini sia della politica sia dell’economia. Da parte loro c’è quindi un sentimento di esclusione. Poiché né i kikuyu né i luo hanno la maggioranza assoluta della popolazione (neanche sommati insieme), queste due etnie hanno dovuto cercare alleanze con altre etnie. E, in particolare, con i luhya, i kalenjin e i kamba. Solitamente i kalenjin, i kikuyu e i luo votano compatti per i loro leader. I luhya e i kamba esprimono un voto più frazionato. Questa volta kalenjin e kikuyu hanno stretto un’alleanza strategica per sostenere Kenyatta. Bisognerà vedere se questa alleanza terrà, considerato il fatto che nel 2007 i due gruppi tribali erano profondamente divisi.

Sulla testa di Kenyatta pesa un’incriminazione del Tribunale penale internazionale per gli incidenti avvenuti nel 2007: quanto comnterà questo fattore se venisse eletto?
Il rischio è di trovarsi nella stessa situazione che sta vivendo Omar al-Bashir, il presidente sudanese, che è in carica pur essendo stato incriminato per crimini contro l’umanità nel Darfur. A livello internazionale quella di Kenyatta sarà certamente un’immagine  compromessa. Ciò complica molto i rapporti con le altre nazioni.
Enrico Casale

© FCSF – Popoli
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