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L'infinito "caso gesuiti" divide El Salvador
25 agosto 2011

È un’estate di colpi di scena per il cosiddetto «caso gesuiti», come viene chiamato in El Salvador, ovvero l’uccisione nel 1989 - nel pieno della guerra civile terminata tre anni dopo - di sei padri gesuiti dell’Università Centroamericana José Simeón Cañas (Uca), di una loro collaboratrice e della giovanissima figlia. Una strage che ebbe un ampio rilievo internazionale e in cui fin da subito risultò chiaro il coinvolgimento dell’esercito. Due militari vennero condannati nel 1993, ma furono subito liberati grazie all’amnistia generale per tutti i crimini commessi durante la guerra. Nessuna chiarezza invece è mai stata fatta sui mandanti della strage.


Ecco i fatti più recenti: nel maggio scorso la magistratura spagnola (che si ritiene competente poiché questa era la nazionalità di diverse vittime) ha chiesto l’arresto di 19 persone per i fatti del 1989, con l’accusa di terrorismo e crimini contro l’umanità. Così, ai primi di agosto, l’Interpol ha emanato un cosiddetto «codice rosso» per 10 tra i ricercati. Ne è nato un dibattito infuocato nel piccolo Paese centroamericano: come in altri casi simili, ci si divide tra chi ritiene giusto fare emergere la verità e perseguire i colpevoli, anche a distanza di anni, e chi vorrebbe chiudere i conti con il passato in nome della riconciliazione nazionale. A livello giuridico, vi è poi diversità di vedute tra chi considera la strage della Uca un crimine comune, seppure compiuto nell’ambito di una guerra, e chi lo ritiene un crimine contro l’umanità, perseguibile a livello internazionale.
La «puntata» successiva è andata in onda il 24 agosto, quando la Corte Suprema salvadoregna ha deciso di non ordinare l’arresto o l’estradizione dei ricercati, con la giustificazione che l’Interpol ha solo chiesto di localizzare queste persone, ma non di procedere al loro arresto e che in mancanza di una richiesta di estradizione a livello internazionale la magistratura salvadoregna non può procedere, poiché il caso è ufficialmente stato chiuso con l’amnistia del 1993.


La palla dunque torna alla magistratura spagnola. Nel frattempo anche Wikileaks aiuta a fare luce sugli intrecci e gli interessi che si nascondono dietro al «caso gesuiti»: in un cablogramma reso pubblico l’8 giugno sul celeberrimo sito (clicca qui per il testo integrale), un funzionario dell’ambasciata Usa a San Salvador racconta di un viaggio di due emissari salvadoregni a Madrid, nel dicembre 2008, per incontrare un giudice dell’Audiencia Nacional; infatti la magistratura spagnola già allora stava indagando sul caso per valutarne la possibile riapertura a livello internazionale. Nel documento risulta come i due emissari, uno del partito allora al potere (Arena) e uno dell’opposizione (Flmn), chiesero (e ottennero) rassicurazioni sul fatto che un eventuale processo non avrebbe coinvolto l’ex presidente Alfredo Cristiani, in carica quando vennero uccisi i gesuiti e accusato da più parti di essere il responsabile ultimo del massacro. Non a caso, nel 2000 l’allora rettore della Uca, José María Tojeira, presentò alla Procura generale della Repubblica una denuncia contro l’ex capo dello Stato e sei ex alti ufficiali delle Forze armate. Ma Cristiani non è mai stato coinvolto in nessun processo, e la missione svelata da Wikileaks sembra dunque avere avuto successo.


Rispetto ai fatti recenti né la Uca né la Compagnia di Gesù del Salvador hanno preso ufficialmente posizione. È significativo però un articolo pubblicato nel sito della Provincia centroamericana dei gesuiti, dal titolo «Las mentiras en torno al Caso Jesuitas». Dopo avere smontato una ad una le argomentazioni secondo cui la riapertura del caso sarebbe sbagliata da un punto di vista giuridico, politico e morale, l’articolo conclude: «Se i principali responsabili riconoscessero con umiltà i propri delitti e chiedessero perdono alla società questo costituirebbe un passo fondamentale per chiudere ferite che continuano a sanguinare in migliaia di salvadoregni».

Stefano Femminis

© FCSF – Popoli