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Mali, nella Gao liberata la guerra continua
21 febbraio 2013
Un enorme cartello accoglie i visitatori che bussano alle porte di Gao, crocevia del deserto e antica capitale del nord del Mali. Bianche pennellate in arabo e francese su sfondo nero, colore simbolo dei mujhaidin di Al Qaeda. «Lo Stato islamico di Gao vi dà il benvenuto». Più in basso e più in piccolo, solo in arabo: «La nostra sharia è la nostra vita». Poco distante l’asfalto della strada è squarciato da un cratere, lasciato dei bombardamenti dell’aviazione francese che, martellando incessantemente per quattro giorni dal 16 gennaio, hanno costretto alla fuga i jihadisti, signori della città per oltre nove mesi.

Dopo la «liberazione» la strada per Gao è stata chiusa a causa delle mine anticarro e degli esplosivi artigianali che i ribelli posano ogni notte nei buchi della carreggiata. L’unico modo di percorrere questo sentiero di gole, falesie e sabbia è farsi scortare dai convogli militari dell’esercito francese che fanno la spola fra Bamako, Sevare e il Nord. La strada asfaltata che, superato il ponte che sovrasta il fiume Niger e le sue ninfee, entra nel cuore di Gao è una sfilata di cartelli sulla natura sacrale del jihad, la necessità di imporre l’hijab per preservare la purezza delle donne, la sharia come garanzia di sicurezza e benedizione divina. Alcune insegne sono state coperte da tricolori francesi e maliani. Altre rimangono a monito dell’oppressione e dell’oscurantismo che hanno vessato la popolazione di Gao e del Nord.

La struttura urbanistica della città, lascito del periodo coloniale, è semplice: un reticolato di strade parallele e perpendicolari, quartieri tutti uguali e case ocra a un piano, massimo due, con la corte e un albero al centro. A rompere questa monotonia geometrica, di tanto in tanto, spunta uno spiazzo, uno slargo. Luoghi d’incontro e di scambio che, da sempre, caratterizzano uno dei più importanti porti del commercio transahariano. La grande piazza dell’Indipendenza, ribattezzata «piazza della sharia» dal Mujao (Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale, uno dei movimenti fondamentalisti) che la usava per eseguire pubbliche frustate e lapidazioni, è di nuovo meta dei ragazzi di Gao. Dopo mesi a far ragnatele, i canestri e le porte da calcio del grande terreno al centro della piazza hanno ricominciato a essere riempite di palloni. Nel campo da basket, ora, giocano gruppi di ragazze che, tolto il velo, urlano e si divertono sotto il sole.

In questa città ogni semplice gesto - tirare a canestro, fischiettare una canzone, passeggiare a braccetto con un’amica, guidare il motorino, fumare una sigaretta - è simbolo di ritrovata libertà. Questa antica oasi fiorita sulle sponde del fiume Niger è abitata in maggioranza da popolazioni nomadi semi-sedentarizzate del Sahel: sonrai, tamashek e peul. Gente che chiusa in casa ci sta malvolentieri, giusto il tempo di mangiare, lavarsi e riposare. Fra le restrizioni imposte dai terroristi durante i nove mesi di occupazione e il coprifuoco delle forze franco-maliane che ancora scandisce le notti della città, ai figli di Gao non rimane che stare sui tetti.

Umar è un giovane sonrai che mi ospita nella casa in cui vive in affitto con degli amici. Prima dell’occupazione insegnava inglese in una scuola mista (le scuole sono state chiuse dal Mujao), ora è disoccupato come quasi tutti quelli che sono rimasti a Gao. «Anche se non è per niente facile vivere qui, questo momento per noi è come rinascere. È stato un anno duro, non vedevamo più la luce. Avere ospiti degli amici occidentali e poterci parlare liberamente sul tetto è una gioia immensa che ci ridà speranza». Poco lontano, seduta sul parapetto del terrazzo di Umar, una ragazza abbraccia una chitarra. Pizzica leggermente le corde, si accende una sigaretta e comincia a cantare.

Sui tetti di Gao illuminati da torce e candele (c’è corrente solo tre-quattro ore al giorno) i giovani bevono birra, gin e whiskey scadenti, fumando tutta la notte. «Manca acqua, cibo e luce, ma non l’alcool! Senza l’intervento dei francesi non sarebbe stato possibile rimanere qui in pace. La vedi quella grande casa a tre piani laggiù? Era una delle ville occupate dai jihadisti. Se una delle sentinelle vedeva la luce delle sigarette o delle candele una pattuglia della Polizia islamica veniva subito a casa ed erano guai».

Una delle notti passate sui tetti con Umar e i suoi amici, però, a rischiarare l’oscurità, oltre al tappeto di stelle sopra le nostre teste, è una forte esplosione, preceduta e seguita da raffiche di mitra all’impazzata. Le radio che dalla liberazione gracchiano musica tutte le notti sui tetti di Gao, improvvisamente tacciono. La gente tende l’orecchio al silenzio, come durante l’occupazione. A un paio di chilometri dal centro città un kamikaze del Mujao si è fatto esplodere a un checkpoint controllato dai soldati maliani, causando il panico. Nonostante non abbia fatto vittime né feriti l’attentatore suicida ha aperto una breccia nella cintura di sicurezza di Gao permettendo l’infiltrazione dai villaggi vicini di almeno una decina di jihadisti a piedi e in moto.

Il giorno dopo, verso l’ora di pranzo di domenica 11 febbraio, i «soldati di Dio» hanno ingaggiato combattimenti a fuoco in diverse zone della città impegnando l’esercito maliano (e metà delle munizioni in sua dotazione) in più di quattro ore di scontri. Uno degli obbiettivi dichiarati in un comunicato dal Mujao era la presa in ostaggio della ventina di giornalisti stranieri rifugiati in un albergo della città. Obiettivo mancato grazie alla difesa dell’Hotel Askia dei soldati maliani aiutati, ma solamente sul finire delle ostilità, dall’esercito francese, intervenuto con forze speciali, carrarmati ed elicotteri d’assalto.

La «battaglia di Gao», com’è stata chiamata dalla gente, ha aperto una nuova fase della guerra in Mali: da una parte i gruppi jihadisti, con i capi, gli ostaggi e il grosso delle armi nascosti fra gole e caverne del massiccio dell’Adrar Des Ifoghas vicino al confine con l’Algeria, rispondono all’avanzata francese con azioni di guerriglia hit and run (colpisci e scappa) terrorizzando la popolazione; dall’altra le truppe francesi, che non intendono protrarre ancora a lungo l’Operazione Serval, ma sono costrette ad uscire dalle città riconquistate e ad addentrarsi nell’insidioso deserto per stanare il nemico prima di poter lasciare il terreno nelle mani dei caschi blu dell’Onu e ai contingenti africani della Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale). In mezzo, come sempre, la popolazione locale che, spaventata da mine, kamikaze, mortai, violenze sommarie e vendette perpetrate dal proprio esercito, teme che i figli di Al Qaeda possano ritornare da un momento all’altro.

Dopo quella maledetta domenica la gente, a Gao, si è chiusa nuovamente in casa. Alcune bandiere francesi, prima onnipresenti, sono state tolte dai negozi. In giro per le strade ci sono solo pattuglie di nervosi soldati che controllano e sospettano di tutti. Perfino il mercato, cuore pulsante di una società improntata al commercio che non ha mai cessato di battere nemmeno durante l’occupazione, ora è chiuso. All’alba qualcuno sfida gli ordini dei militari e cerca di incontrarsi fra i banchi di legno per scambiare condimenti, lastre di sale, sacchi di riso. Ma i soldati maliani e francesi ogni mattina convincono la gente a tornarsene a casa.

Hibrahim siede davanti al suo studio fotografico - «lo Studio Nina, il primo di tutta Gao» - a pochi passi dal mercato. La porta del suo umile negozietto di due stanze è chiusa dietro le sue spalle. «Durante l’occupazione sono rimasto aperto nonostante le continue minacce. Hanno saccheggiato e bruciato uno studio fotografico di un mio amico, qui a Gao. Da me invece venivano spesso a controllare che non avessi fotografie di matrimoni o feste famigliari, che ovviamente nascondevo. Per quei pazzi tutto quello che è gioioso è haram (“peccato”)! Negli ultimi mesi ho fatto solo fototessere, per permettere alla gente di scappare da questo inferno. Di media avevo un cliente a settimana».

La furia iconoclasta del salafismo, corrente estremista dell’islam contemporaneo a cui si rifanno i gruppi terroristici del Nord del Mali, qui si è scagliata perfino sui ricordi personali della gente. «A chi usciva o entrava in città venivano controllati i bagagli e se la Polizia islamica trovava fotografie le bruciava sul posto. Volevano cancellare la nostra vita quotidiana, i legami e i rapporti umani che da sempre hanno fatto vivere Gao, ma non ce l’hanno fatta».

Scende un’altra notte e un altro coprifuoco sui tetti di Gao. La gente tiene basse le radio, scruta il buio e ascolta il silenzio scendere sulla città.
Andrea de Georgio

© FCSF – Popoli