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Martin e gli altri
30 aprile 2013

La storia della famiglia Richard ha commosso tutti. Martin, 8 anni, era il primo tifoso di suo papà, maratoneta a livello amatoriale: è morto mentre lo aspettava all’arrivo della corsa di Boston, il 15 aprile, dilaniato - come altre due persone - da una bomba piazzata da terroristi per fortuna rapidamente neutralizzati. Nella stessa esplosione la sorellina ha perso una gamba e la madre, mentre scriviamo, è in coma per le gravi ferite alla testa.

Nelle stesse ore, a Baghdad e in altre città irachene, una serie di attentati ha ucciso decine di persone (non si conosce il numero esatto). Il giorno prima, in Somalia, un attacco degli islamisti di al-Shabaab al tribunale di Mogadiscio ha lasciato sul terreno almeno 35 vittime. Mentre in Siria il bollettino di guerra del 15 aprile, il giorno della maratona insanguinata, faceva registrare 78 vittime, tra cui 18 bambini (i caduti negli oltre due anni di conflitto sfiorano ormai i 90mila). E, in una sequenza impressionante ma purtroppo per nulla insolita, si è aggiunto un terremoto in Iran i cui effetti devono ancora essere accertati, ma che è stato valutato come il più potente degli ultimi decenni nella zona.

Sappiamo con quale sproporzione di spazio queste notizie sono state riportate dai mass media generalisti. E quanto diversi sono stati il sussulto emotivo, l’indignazione, l’empatia dell’opinione pubblica. C’è un’evidente correlazione tra questi due fattori: un’informazione dettagliata, partecipante, che va oltre la semplice cronaca e ci fa conoscere storie e volti delle vittime, produce inevitabilmente un maggiore coinvolgimento. Sul banco degli imputati c’è dunque - e non da oggi - il sistema mediatico, con i suoi criteri di selezione delle notizie, il suo modo di confezionarle, le sue miopie. Va detto però che, nell’era della rete e dei canali di informazione all news, questa appare sempre più come una foglia di fico. Ci sono ad esempio decine di siti specializzati, profili Twitter e Facebook, riviste «indipendenti» e Ong che ci parlano regolarmente dei tanti Martin siriani. Ma nulla si smuove nella coscienza collettiva. Perché?

Forse le ragioni sono più profonde e hanno a che fare, in ultima analisi, con una inscalfibile gerarchia nella percezione della gravità. Un attentato a Boston (o a Londra o a Parigi) viene vissuto come qualcosa che ci riguarda molto più da vicino di barbarie magari peggiori avvenute ad altre latitudini; un caduto occidentale «pesa» di più, sui nostri cuori e nelle stanze della politica o della finanza, che cento vittime in qualche periferia del mondo.

Non serve scandalizzarsi: ci sono molte ragioni (alcune anche comprensibili)per cui è sempre stato così, ma oggi dobbiamo chiederci se vogliamo che sia così per sempre. Serve, questo sì, prendere coscienza di quanto tale logica sia radicata dentro di noi. Non sarebbe che l’inizio, perché la commozione resta sterile se non ispira azione, impegno, pressione sugli attori politici, cambiamento personale e sociale. Ma solo da qui si può iniziare: da una compassione capace di allargare i propri confini, abbracciando tutto l’uomo e tutti gli umani, indifferente a bandiere e passaporti.

Stefano Femminis
@stefanofemminis

© FCSF – Popoli