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"Noi, monaci per il dialogo nel caos iracheno"
15 luglio 2014

Un monaco della comunità di Sulaymaniyah, nata dall'esperienza siriana di Deir Mar Musa, racconta le incertezze che vivono oggi i cristiani in Iraq e l'impegno per la convivenza.

«Il desiderio di un Iraq unito appartiene a tanti cristiani, ma ogni giorno sembra sempre più un sogno. Siamo di fronte all’ultimo atto della divisione del Paese». Sébastien Duhaut, monaco francese a Sulaymaniyah (Kurdistan iracheno), così riassume la situazione di instabilità che vive la maggior parte degli iracheni, compresi i cristiani, a oltre un mese dall’inizio dell’offensiva dell’Isis nel Nord-Ovest del Paese.

Sébastien è membro della comunità monastica nata da quella siriana Deir Mar Musa, fondata da Paolo Dall’Oglio. È arrivato nell’ottobre 2012 a Sulaymaniyah, una città che gode di una certa sicurezza, come gli altri centri del Kurdistan autonomo, a differenza delle zone sul fronte di combattimento tra i jihadisti dell’Isis e le truppe dei peshmerga curdi. La comunità ha accolto per un periodo alcune famiglie in fuga da Qaraqosh (Bakhdida), una città assira e a maggioranza cristiana vicina a Mossul, quando è stata colpita da colpi di artiglieria. «Appena la situazione si à calmata queste persone sono rientrate nelle loro case - racconta Duhaut -. Si è discusso molto, ma non è stato chiarito se gli attacchi erano dovuti ai ribelli che hanno conquistato Mossul oppure a divisioni locali, tra villaggi arabi sunniti e la città di Qadaqosh».

Migliaia di persone sono fuggite dalle zone occupate dagli insorti jihadisti, ma i vescovi caldei e lo stesso  patriarca, Louis Raphael I Sako, hanno voluto chiarire che non ci sono stati attacchi mirati ai cristiani. In occasione del sinodo caldeo che a fine giugno si è svolto per ragioni di sicurezza nel capoluogo curdo Erbil, invece che a Baghdad, è stata creta una commissione di cinque vescovi delle zone colpite, per organizzare gli aiuti agli sfollati. Ed è sfollato il vescovo stesso di Mossul, mons. Emil Nona, insieme alla maggior parte dei suoi fedeli. Il suo arcivescovado sarebbe stato saccheggiato, secondo alcune fonti, insieme a quello siriaco.

Ancora una volta, le zone curde dell’Iraq si confermano le più sicure e la gente trova riparo in moschee, chiese e scuole, anche se i peshmerga hanno posto controlli rigidi ai rifugiati. Le truppe curdi hanno approfittato della situazione per occupare le zone che rivendicavano da anni, soprattutto la città di Kirkuk, ma anche aree della regione di Mossul e altre più a Sud. «I curdi non sono mai stati così vicini all’indipendenza - osserva Duhaut -. Nelle zone occupate dall’Isis, invece, la situazione è complessa, non si può dire che i ribelli dell’Isis siano l’unico attore della guerra: sono ben addestrati, ma poco numerosi. Dietro la loro rapida avanzata c’è la maggioranza degli arabi sunniti dell’Iraq, che non accettano il regime confessionale e discriminatorio che attualmente vige a Baghdad con gli sciiti. Molti pensano di approfittare dei terroristi per riprendere il controllo». La situazione militare ora è quasi stabilizzata. Il primo ministro iracheno Al Maliki cerca di riconquistare terreno, ma nelle ultime due settimane il fronte non è mutato.

La maggiore sicurezza a Sulaymaniyah ha facilitato l’inserimento della comunità monastica, formata da padre Jens Petzold e suor Friederike Gräf, oltre che dallo stesso Sébastien Duhaut, che studia teologia ad Erbil. Invitati dal mons. Sako a inserirsi nella città, i religiosi curano la chiesa parrocchiale di Maryam al-Adhra. Come in Siria, nel monastero di Mar Musa, la comunità ha l’obiettivo di promuovere la fraternità fra cristiani e musulmani, in un contesto dove la lingua principale è il curdo. «Il clima è positivo e la comunità è stata accolta molto bene dalla Chiesa locale caldea», aggiunge Sébastien. In città ci sono cristiani originari della zona, ma anche molti fuggiti negli scorsi anni dalle grandi città arabe del sud del Paese a causa delle violenze. Si sono inseriti in Kurdistan, anche se molti sperano di partire verso l’Occidente. «Qui non c’è la storia di Mar Musa, le antiche pietre di un monastero di quindici secoli, ma è una bella avventura, un luogo dove ci sono possibilità di costruire».

Realtà piccole ma attive come questa servono a intrecciare legami interreligiosi e a favorire la convivenza tra comunità. Vanno nella direzione indicata dal patriarca Sako, che in queste settimane di conflitto ha denunciato la mancanza di un progetto credibile di cittadinanza per tutte le componenti dell’Iraq.

Francesco Pistocchini

© FCSF – Popoli