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Pippo Delbono: "Il mio incontro con l'Africa che sa ridere"
30 settembre 2013

È bastato un breve soggiorno in Senegal per offrire a Pippo Delbono, attore e regista molto conosciuto in Italia e all'estero, l'occasione di riflettere su un continente affascinante e contraddittorio come l'Africa. Echi di questa esperienza si ritrovano nello spettacolo che dall'8 ottobre è in scena al Piccolo Teatro di Milano. Ne parla in un'intervista a Popoli.


Regista, attore teatrale e cinematografico, in ottobre al Piccolo Teatro di Milano con il suo ultimo spettacolo, Pippo Delbono è una tra le più significative voci del nostro panorama culturale, molto conosciuto anche all’estero. Spesso veemente nello svelare ipocrisie e derive morali della società contemporanea, ha sempre considerato il confronto con la diversità un momento cruciale della sua ricerca. Un’inquieta curiosità che lo ha spinto, nel corso della sua trentennale attività, in decine di Paesi. Risale ad appena qualche mese fa l’incontro con il Senegal e il potente battesimo dell’Africa Nera.

Cosa l’ha indotta ad approdare in Africa subsahariana?
L’Africa è uno di quei luoghi che appartengono alla nostra comune storia di uomini, e non potevo esimermi, come artista, da un contatto diretto. Era importante stare, esserci in questo luogo della Terra dove si soffre e si muore, ma che è al tempo stesso il più ricco di vitali contraddizioni, tanto da costituire la verosimile prospettiva futura del pianeta. È inoltre il luogo in cui ritrovi l’origine di moltissime cose, di quasi tutte le musiche ad esempio, e all’origine bisogna avere il coraggio di tornare.

Che cosa le ha lasciato di più prezioso questo viaggio?
Qualcosa che ha a che fare con lo stomaco, la carne, la pesantezza ma anche la leggerezza. Una pesantezza che senti nel modo di confrontarsi retrivo, perfino fascista, con la religione, le donne, l’omosessualità o l’Aids, alla quale si associa una leggerezza straordinaria nel rapporto con la gioia, la sensazione di essere parte di un tutto e la capacità di essere poveri senza lasciare che la povertà spezzi la relazione con la felicità. Prima di riprendere l’aereo sono capitato in mezzo a un gruppo di donne che ho filmato per più di un’ora mentre ridevano e manifestavano con intensità sorprendente la propria gioia, pur non possedendo quasi nulla. Quando sono arrivato a Parigi, ho riascoltato la gente parlare di crisi, con tristezza e nostalgia per qualcosa di perduto. Noi abbiamo perduto ciò che l’Africa conserva: il rapporto con la felicità, la natura, l’energia presente. Ci sono molte signore, in Europa, cui occorrerebbe una vita intera per ridere quanto quelle donne in un’ora e mezza. Pensiamo sempre a come eravamo o a come vorremmo essere e viviamo poco nel presente. Siamo fuori ritmo. Abbiamo un serio problema con il ritmo.

E a livello professionale quali tracce ha lasciato l’Africa?
Nell’ultimo spettacolo, Orchidee, ci sono immagini che ho ripreso da queste donne in festa e alcune parole del poeta Senghor. Ma si tratta solo di un primo passo cui dovrebbe seguire un progetto da realizzare in Senegal tra il 2014 e il 2015. Sarebbe arrogante, dopo una permanenza di due settimane, pretendere di raccontare l’Africa nella sua complessità. È una terra su cui abbondano idee retoriche, banali, da cui occorre prendere le distanze con una conoscenza approfondita. Mi considero un uomo che è entrato da una piccola porta e ha appena sbirciato.

Vincenzo Maria Oreggia
© FCSF – Popoli
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