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Siria: un successo, molte sconfitte
30 settembre 2013

Pubblichiamo anche online l'editoriale del numero cartaceo di ottobre di Popoli.

 

La straordinaria mobilitazione delle coscienze innescata da papa Francesco, con la sua proposta di una giornata di digiuno e preghiera per la pace, il 7 settembre, è stata certamente un fattore decisivo nell’allontanare i fantasmi di un conflitto globale. Infatti, mentre scriviamo, sembra rientrata la minaccia di un intervento militare franco-statunitense in Siria, intervento che, motivato dalla volontà di punire l’utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Bashar al Assad, avrebbe rischiato di allargare a macchia d’olio il conflitto, con il probabile coinvolgimento di Paesi come Libano, Iran, Israele, forse la stessa Russia. E tutto questo senza sciogliere, se non in modo provvisorio e simbolico, il nodo siriano.

Ma non possiamo esultare. Nella vulgata massmediatica il digiuno chiesto dal Papa è stato rappresentato come un’iniziativa «contro la guerra in Siria». In realtà la guerra in Siria c’è da due anni e mezzo e ha provocato oltre 100mila vittime, 4 milioni di sfollati interni e oltre un milione di profughi. Non solo, c’è chi ha celebrato il fragile compromesso (Assad che si impegna, in modi e tempi piuttosto vaghi, a mettere sotto controllo Onu il proprio arsenale chimico) come una vittoria della diplomazia. Come se non si trattasse di un risultato raggiunto con colpevole ritardo. Come se l’accordo non puzzasse di ipocrisia (sono davvero così irrilevanti i morti uccisi da armi convenzionali?).

La verità è che nel disastro siriano noi possiamo vedere riflessi tutti i fallimenti della comunità internazionale negli ultimi 25 anni. Finita l’era dei blocchi contrapposti e dell’«equilibrio del terrore», non sono state costruite vie alternative ai bombardamenti (o al disinteresse) per fronteggiare conflitti locali e stermini di massa. Le Nazioni Unite, i cui meccanismi di funzionamento sono stati concepiti settant’anni fa, sono sempre più paralizzate dai veti incrociati e non si prevedono a breve riforme incisive. Suggestionati dalle teorie sullo «scontro di civiltà», non abbiamo saputo cogliere quanto di promettente si muoveva dentro al mondo musulmano, facendoci cogliere di sorpresa dalle Primavere arabe e lasciando che - in Siria come in Egitto, in Libia come in Yemen - le sincere istanze democratiche rimanessero schiacciate tra i difensori dello status quo e l’estremismo islamico.

Ma non possiamo nemmeno arrenderci. Se il bilancio è quello tracciato, esistono però strumenti che, qualora rafforzati, potrebbero aprire nuove prospettive: dal Tribunale penale internazionale al rilancio di un costruttivo multilateralismo, fino al progetto di una zona libera da armi di distruzione di massa in Medio Oriente, promosso nel 2012 dall’Ue e poi accantonato.
Lo dobbiamo in primo luogo ai siriani, così come alle vittime di tutti i conflitti presenti e futuri, di cui non possiamo più non sentirci responsabili.

E, come Popoli, lo dobbiamo anche al nostro collaboratore Paolo Dall’Oglio, scomparso da fine luglio proprio in Siria. Sulla vicenda ci atteniamo al silenzio che ci è stato suggerito da parenti e autorità. Con il desiderio di vedere presto, insieme a lui e come lui auspica nel suo libro più recente, «il giorno in cui Siria sarà sinonimo di resurrezione».

Stefano Femminis
© FCSF – Popoli