Quella tunisina è stata la prima rivolta «informatica» del Maghreb. I protagonisti sono ragazzi con una cultura medio alta che, come tutti i loro coetanei nel resto del mondo, hanno una certa dimestichezza con il computer, i telefoni cellulari e i social network. È così che le parole d’ordine, invece di circolare attraverso volantini, giornali o manifesti, sono rimbalzate su Twitter e Facebook e hanno mobilitato nelle manifestazioni decine di migliaia di disoccupati, studenti, lavoratori precari. Non è un caso che, per arginare questa fiammata, il regime abbia oscurato per molti giorni proprio i siti di Facebook e Twitter e abbia monitorato ogni forma di comunicazione via web.

Ma questa non è stata l’unica novità della rivolta tunisina. Alle parole d’ordine, nei giorni si è affiancata anche una colonna sonora realizzata sul ritmo del rap, il genere nato negli Usa per dar voce ai neri e ai loro problemi. I pezzi che hanno accompagnato le manifestazioni sono molti ma, indubbiamente, il più ascoltato è Rais LeBled, un duro attacco al presidente Ben Ali («La legge e la costituzione sono ormai sulla carta/ Metà della popolazione vive nell’oppressione e beve l’umiliazione») e delle sue forze dell’ordine («ormai sanno usare solo i manganelli»). A cantarla è Hamada Ben-Amor che, come i rapper statunitensi, si è scelto uno pseudonimo: Général Lebled. Non è un caso che tra i primi arrestati dalla polizia ci sia stato proprio lui che per alcuni giorni ha assaggiato il duro clima delle carceri tunisine. Hamada però non è l’unico a protestare cantando. Al suo fianco ci sono altri rapper: Melek Khemiri, che denuncia «la cultura della paura, incrostata sotto la pelle dei tunisini»), e Lak3y, che nel brano La Tunisia va bene paragona il suo Paese a «un bus che trasporta cinquanta persone mentre duecento restano in stazione».