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Bangladesh, quando i morti sono compresi nel prezzo
6 giugno 2013

La strage di Dacca del 24 aprile - 1.127 operai morti sul lavoro - non è stata una fatalità, ma lo specchio di un modello di sviluppo distorto che attraversa l’Asia e interpella anche investitori e consumatori europei. Pubblichiamo una parte del servizio che esce sul numero di giugno-luglio di Popoli.


Reshma è una giovane operaia estratta viva
dopo 17 giorni dalle macerie del palazzo crollato a Savar, periferia di Dacca. Sono 1.127 i morti accertati nei laboratori inseriti negli otto piani del Rana Plaza che si è sgretolato il 24 aprile scorso: un solo crollo ha causato più del triplo delle vittime del terremoto dell’Aquila nel 2009. E poi ci sono circa 1.600 feriti, in quello che forse è il più grave disastro industriale avvenuto in Asia dopo Bhopal. Quante persone lavoravano alla New Wave Style, alla Phantom Apparels, alla Phantom Tac o in qualche altro «fantasma» della produzione di abbigliamento? Forse tremila, ma di preciso non si saprà mai.

Il proprietario del palazzo, Mohammed Sohel Rana, è stato arrestato alcuni giorni dopo la tragedia al confine con l’India, mentre cercava di fuggire. Il 23 aprile aveva fatto controllare l’edificio perché mostrava segni di cedimento. Notizie sui pericoli che correva la struttura erano apparse anche sulla stampa locale e, secondo l’agenzia Ap, la polizia aveva ordinato di evacuare l’edificio, ma il proprietario avrebbe comunque convinto la gente a raggiungere il posto di lavoro. Rana, di cui adesso molti in Bangladesh chiedono la condanna a morte, è un giovane imprenditore rampante con i giusti contatti nella Awami League, il partito di governo. Avrebbe avuto le autorizzazioni per prosciugare uno stagno e costruire l’edificio che, invece di fermarsi ai cinque piani previsti nel progetto, è arrivato a otto. E su quella struttura, già inadeguata, sono stati inseriti i laboratori con i macchinari, dove lavoravano migliaia di operaie.

UNA SERIE DI INCENDI
Una lista di crolli e, soprattutto, incendi accompagna la crescita industriale che in Bangladesh è sinonimo di tessile e abbigliamento. Il 9 maggio, mentre ancora si scavava tra le macerie del Rana Plaza, sette persone sono morte nell’incendio in un’altra fabbrica di Dacca. Lo scorso 24 novembre era bruciata la sede della Tazreen Fashion di Ashulia, altro sobborgo della capitale. Subito dopo l’innesco dell’allarme, i caporeparto avevano intimato a centinaia di operaie di restare al proprio posto e continuare a confezionare magliette, jeans e pantaloncini per clienti come Walmart e Sears. James Pogue, un giornalista che ha visitato Ashulia, riferisce che il numero esatto di corpi recuperati è uno dei tanti misteri che circondano la vicenda, sebbene la stampa abbia parlato di 112 cadaveri. Racconta di Rukiya Begum, che aveva la figlia diciannovenne al quarto piano e il cui corpo non è mai stato ritrovato. Perciò Rukiya non ha potuto ricevere i circa cinquemila euro offerti da governo, imprenditori di categoria e alcune aziende straniere come indennizzo. «Ho provato a chiedere un certificato di morte - racconta Rukiya -, ma mi hanno detto: “Dov’è il corpo?”. Ho paura che sia stata ridotta in cenere».

Lovely, invece, nel 2006 è sopravvissuta a un incendio a Chittagong (seconda città del Paese) che fece 63 vittime. Ha raccontato la sua storia in un rapporto di International Labor Rights Forum. Aveva undici anni ed era stata appena assunta da un’impresa, la Kts Textile Factory, che permetteva a operaie bambine di impacchettare calzini. Al secondo piano del palazzo dove ha lavorato per soli 23 giorni non ha potuto fuggire rapidamente dalle porte, appositamente bloccate per tenere meglio a bada le ragazzine, e oggi, con ustioni sul viso e alle mani, non può più lavorare. Non ha avuto risarcimenti.

IL BOOM DELL’ABBIGLIAMENTO
Il Bangladesh è diventato in pochi anni il secondo esportatore mondiale di abbigliamento dopo la Cina. Con un giro di affari di circa 20 miliardi di dollari, questa è l’unica vera industria del Paese e rappresenta l’80% delle esportazioni. Unione europea, Usa e Giappone sono i principali destinatari del Made in Bangladesh. Agli attuali tassi di crescita potrebbe diventare il primo produttore mondiale ed è in forte competizione con India e Pakistan. Il settore occupa quasi 5 dei 150 milioni di bangladesi (per l’80% donne). In un Paese sovraffollato, particolarmente soggetto a inondazioni e con difficili approvvigionamenti di energia, è frequente il ricorso a fabbriche verticali con linee di produzione congestionate, cortocircuiti elettrici, materiali infiammabili, estintori non funzionanti, scale di sicurezza bloccate da pile di indumenti, uscite sbarrate, lavoratrici intrappolate che muoiono asfissiate, bruciate o che si lanciano nel vuoto.

L’enormità della tragedia di aprile, tuttavia, ha avuto un impatto fortissimo: per giorni ci sono stati cortei e proteste con la sospensione della produzione. Dopo un braccio di ferro tra lavoratori e imprenditori, il 15 maggio è stata annunciata la chiusura di duecento aziende, in risposta ai continui scioperi per chiedere più sicurezza e aumenti di retribuzione. Il salario minimo mensile è di soli 3.000 taka (meno di 30 euro). Un rapporto dell’Istituto per l’alimentazione dell’Università di Dacca nel 2010 spiegava che una lavoratrice nel settore dell’abbigliamento avrebbe bisogno di 3.400 calorie per svolgere dieci ore di lavoro al giorno. Per comprare alimenti adeguati a tale fabbisogno, spende circa 2.350 taka al mese (e ne servirebbero 11mila per mantenere una famiglia media). Tali salari, tra i più bassi del mondo, attirano investimenti e il boom della produzione ha spinto a convertire edifici sorti per altri scopi in fabbriche dove migliaia di operaie, giorno e notte, rispondono alle richieste di produzione dei grandi marchi, soprattutto occidentali.

Le catene fast fashion come Gap e H&M esigono processi produttivi rapidi: gli ordini richiedono di subappaltare a diversi produttori attraverso catene di produzione articolate e poco trasparenti. Se occorre, i datori di lavoro assumono personale in più per rispondere rapidamente alle richieste e la manodopera in Bangladesh non manca. La spagnola Inditex (Zara, Bershka, Pull and Bear tra i suoi marchi) riesce in due settimane a ideare un nuovo capo, produrlo e venderlo in 4.600 negozi nel mondo. I 122 morti nell’incendio di Ashulia in novembre facevano straordinari per rispondere alla sovrapproduzione prenatalizia richiesta nei Paesi occidentali.

ABITI PULITI
Anche nelle fabbriche crollate a Savar si rifornivano aziende multinazionali (Mango, Bon Marche e altre) che hanno iniziato ad ammettere il loro coinvolgimento. L’angloirlandese Primark ha emesso un comunicato in cui riconosce le proprie responsabilità. Dopo che fotografi dell’agenzia Afp hanno scattato immagini di etichette United Colors of Benetton tra le macerie, anche l’azienda italiana è finita sotto i riflettori. La Campagna Abiti puliti (www.abitipuliti.org) è entrata in possesso di una copia di un ordine di acquisto da parte di Benetton per capi prodotti dalla New Wave Bottoms. L’azienda prima ha negato, poi ammesso (il 29 aprile) di avere fornitori nell’edificio. «Ma Benetton non è l’unica - spiega a Popoli Deborah Lucchetti, coordinatrice per l’Italia della Campagna -. Ci sono altre aziende del nostro Paese, in particolare Yes Zee, del marchio Essenza. Mentre la Pellegrini era stata cliente di una delle aziende, ma solo in passato. Stiamo cercando di entrare in contatto con Manifattura Corona, le verifiche sono ancora in corso».

Ma quali sono le principali aziende italiane che acquistano in Bangladesh? «Le filiere produttive non sono trasparenti, nessuno dichiara i propri fornitori come noi chiediamo da anni - aggiunge Lucchetti -. In alcuni casi emergono i coinvolgimenti, come quello di Piazza Italia nel caso dell’incendio della Tazreen a novembre».

Il 15 maggio anche il gruppo Benetton ha sottoscritto il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, come richiesto dalla Campagna, che intanto ha raccolto più di un milione di firme. L’Accordo sugli incendi e la sicurezza negli impianti è un programma specifico di azione che comprende ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti e revisione strutturale delle norme di sicurezza. La novità sostanziale è l’obbligo per le marche e i rivenditori di coprire i costi degli interventi e interrompere gli affari con qualsiasi fabbrica rifiuti di fare gli interventi necessari per la sicurezza. E, soprattutto, le imprese accettano di pagare per la manutenzione necessaria delle fabbriche in Bangladesh.

Le pressioni dell’opinione pubblica si fanno sentire e il numero di aziende aderenti è cresciuto in pochi giorni: dalla svedese H&M alla spagnola Inditex, ma anche l’americana Pvh (marchi Calvin Klein e Tommy Hilfiger), le britanniche Mark&Spencer e Tesco e la tedesca Tchibo. Resta fuori dall’Accordo, voluto anche da confederazioni sindacali bangladesi e internazionali, un gigante della grande distribuzione come Walmart (la più grande multinazionale del mondo).
Sembrerebbe una svolta significativa, dato che in questi anni le imprese non avevano aderito a protocolli vincolanti, limitandosi a emettere codici di condotta (uno di Walmart in dodici punti risale a vent’anni fa), ma senza veri risultati. Sistemi di certificazione come SA8000, che esiste dal 1997, sono spesso inefficaci: gli imprenditori locali sanno in anticipo quando arrivano gli ispettori, istruiscono gli operai su che cosa dire, falsificano i registri. Con la corruzione si pagano costruttori e ispettori. Dopo il crollo della Spectrum a Dacca nel 2005 (Popoli, n. 1/2007), non ci sono stati passi avanti nella legislazione interna in Bangladesh, come conferma Lucchetti: «L’unico elemento degno di nota è stato l’aumento del salario minimo, che resta comunque sotto la soglia del salario vivibile».

«Vivere con 38 dollari al mese: il salario delle persone che sono morte… questo si chiama “lavoro schiavo”», ha denunciato papa Francesco lo scorso 1º maggio. Il direttore della Caritas del Bangladesh che è impegnata nell’assistenza alle famiglie colpite (dalla distribuzione di medicine al sostegno psicologico), ha dichiarato ad AsiaNews che la responsabilità è di tutti: governi, industrie, clienti. «Credo che tutti - incalza - dovremmo chiederci perché una maglietta prodotta in Bangladesh costa 20 euro, mentre se viene prodotta in Europa costa 80 euro».

Le grandi marche internazionali non possono nascondersi dietro i fornitori locali o giustificare condizioni di lavoro schiavistico con il fatto che si crea occupazione. Se non vogliono essere indifferenti ai danni di immagine, oppure abbandonare il Bangladesh per luoghi dove i rischi di simili incidenti sono minori (danneggiando il Bangladesh), la tragedia di Savar può segnare una svolta.

Francesco Pistocchini

© FCSF – Popoli