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Cosa succede in Venezuela
26/02/2014

Da un mese si moltiplicano in Venezuela scontri di piazza che hanno provocato almeno 15 morti, numerosi feriti e diversi danni materiali. Sullo sfondo, una profonda crisi economica e sociale. Abbiamo chiesto a Jesús María Aguirre, gesuita, direttore del Centro Gumilla, prestigioso istituto di studio e azione sociale retto dai gesuiti, di spiegarci sia le cause immediate sia quelle profonde di queste tensioni.

«Alla fine di gennaio - spiega Aguirre - sono iniziate alcune proteste studentesche in università pubbliche e private - a eccezione di quelle bolivariane, controllate direttamente dal governo - negli ospedali e in altri spazi pubblici. Gli studenti protestavano contro il clima di crescente insicurezza nel Paese. Il Venezuela ha uno dei più alti tassi di violenza in America Latina. Secondo l'Osservatorio venezuelano sulla violenza, il 2013 si è chiuso con 24.763 morti violente. La dura repressione nella Universidad de Los Andes, nello Stato di Táchira, con l'arresto di tre studenti, è stata la scintilla che ha innescato proteste in altri centri universitari del Paese, su nuovi temi: dalla mancanza di investimenti al blackout informativo sulla protesta stessa imposto ai media dal governo».

Chi sono i principali responsabili delle violenze?
Come succede spesso in situazioni simili, manifestazioni inizialmente pacifiche vengono poi infiltrate da attori politici interessati a manipolare e polarizzare le proteste. Questa escalation di violenza va imputata alle fazioni radicali di entrambi gli schieramenti. Da un lato, c'è chi non riconosce l'attuale governo come legittimo, per varie ragioni (la presunta nazionalità colombiana del presidente, brogli elettorali, deriva autoritaria, ecc.), e arrivano a giustificare qualsiasi metodo di protesta, anche quelli antidemocratici.

Dall'altro lato, si cerca di soffocare il movimento di ribellione utilizzando le forze di sicurezza, infiltrando le manifestazioni o attaccando le stesse con gruppi paramilitari chiamati "collettivi". Si sono registrate vittime da entrambe le parti, ma va detto che la maggior parte sono state causate dalla repressione del governo e dai "collettivi".

 

Quali sono le cause più profonde delle tensioni?

Le proteste studentesche hanno a che fare con il crescente malcontento e la disperazione della classe media , ormai impoverita da un'inflazione superiore al 50% - e dal fallimento di molte piccole e medie imprese private. È difficile infatti sopravvivere a leggi sul lavoro soffocanti, senza accesso alla valuta estera e non potendo di fatto importare nulla a causa del controllo sul cambio imposto arbitrariamente dal governo.

A questi fattori si aggiunge la componente politica, poiché la maggioranza dei venezuelani rifiuta il modello cubano e, nonostante la sconfitta della modifica costituzionale proposta da Chavez nel 2007 di carattere sostanzialmente comunista, il governo cerca di imporre tale modello attraverso leggi delega che permettono al presidente di legiferare su quasi qualsiasi argomento.

 

In tutto ciò quali sono le responsabilità del successore di Hugo Chávez, il presidente Nicolás Maduro?
Tutti ammettono che Maduro non ha il carisma del defunto Chávez. È una figura che si regge sull'investitura personale ricevuta dallo stesso Chávez con il consenso dei fattori cubano-castristi inseriti nella macchina statale. Nelle ultime elezioni c'è stato un esborso economico che ha contribuito a svuotare le casse nazionali solo per far vincere Maduro e, nonostante la vittoria sia stata risicata e molto contestata, a livello internazionale la sua presidenza si è consolidata grazie alle partnership con alleanze regionali come Alba, Mercosur e Unasur, e l'appoggio di Cina e Russia.

Tuttavia, l'eredità economica di Chávez non è sostenibile e l'aumento esorbitante del debito, unito alla riduzione delle riserve valutarie internazionali, non permette a Maduro di attenuare gli effetti negativi di alcune nazionalizzazioni che hanno indebolito la produttività di industria e agricoltura. Il «socialismo del XXI secolo», con le sue promesse di indipendenza e sovranità alimentare, in un decennio ha fatto crescere le importazioni alimentari dal 65% del fabbisogno a oltre l'80% e non riesce a rifornire il mercato interno con i prodotti di base come farina, olio, carta igienica.

Le carenze dovute al crollo della produzione toccano le tasche di tutti, poveri e ricchi, anche se questi ultimi ovviamente ne risentono di meno. Questo diffuso malcontento è in parte controbilanciato dalla crescita esponenziale dei dipendenti pubblici, che hanno formato una massa clientelare se non entusiasta, almeno favorevole al governo: se in Colombia la pubblica amministrazione rappresenta il 3,9% degli occupati e in Perù l'8,4 %, in Venezuela abbiamo raggiunto il 19,6%. Tuttavia anche questa classe media o medio-bassa è colpita dall'inflazione.

Inoltre, la riduzione delle risorse per le cosiddette «Missioni sociali» (Mercal para alimentos, Barrio Adentro para la salud - supportata dai cubani -, Misión Vivienda, ecc.), che aiutavano in particolare baraccopoli e settori popolari, ha indebolito l'influenza dello Stato. Tuttavia permane l'idea di un regime che riconosce e difende gli interessi degli esclusi, nonostante il suo carattere sempre più autoritario e militarista.

 

Intravede una possibile via di uscita condivisa e non violenta?
Purtroppo permane la polarizzazione politica con l'obiettivo di annientare l'avversario e di ottenere l'egemonia. Nel suo linguaggio il presidente Maduro, anche quando chiama al dialogo, continua a stigmatizzare avversari come borghesi, nemici della patria e golpisti. A sua volta parte dell'opposizione, in un anno non elettorale quale è il 2014, è tentata di trovare scorciatoie per un cambio di governo, senza darsi il tempo per consolidare le basi sociali per un progetto alternativo.

Si diffondono approcci costruttivi su problemi specifici come la sicurezza o la salute, ma questo avviene  tra attori che non si identificano in nessuna delle fazioni politiche in campo. Di fatto, la maggior parte della popolazione chiederebbe un'intesa nazionale, ma non ci sono mediatori in vista.

 

Non potrebbe essere la Chiesa cattolica venezuelana a svolgere questa mediazione?
In primo luogo, occorre tenere presente che circa il 75% della popolazione venezuelana è cattolica, almeno culturalmente, e che ci sono cristiani in tutte le classi sociali e schieramenti politici. Sebbene il governo abbia cercato di approfondire la divisione tra gerarchia anti-rivoluzionaria e cattolicesimo popolare, la Chiesa mantiene un'elevata credibilità rispetto ad altre istituzioni.

La posizione della gerarchia si è manifestata attraverso due dichiarazioni ufficiali della Conferenza episcopale venezuelana che si riassumono nella seguente proposta: «Chiediamo ai leader di tutti i partiti e gruppi, sociali e politici, che incoraggino i loro simpatizzanti a contribuire con il loro comportamento e le loro parole ad allentare le tensioni, a riconoscere gli avversari e a cercare la riconciliazione. Sia forte il proposito di costruire la pace e prevenire qualsiasi manifestazione violenta che possa rompere la convivenza pacifica tra tutti i cittadini» (14 febbraio 2014).

Anche se alcuni leader, soprattutto di opposizione, propongono la mediazione della Chiesa, difficilmente il governo le riconoscerà questo ruolo, essendo stata negativamente segnata da uno sfortunato intervento del cardinale Velasco nel tentato colpo di Stato dell'aprile 2002.

Ci sono poi singoli pastori che si sono pronunciati, come il vescovo di San Cristóbal - luogo dei primi tumulti - e l'arcivescovo di Maracaibo, il primo con un tono più conciliante e il secondo più critico. Ci sono state numerose altre comunicazioni, provenienti da istituzioni cattoliche, anzitutto dall'Università Cattolica Andrés Bello, e di altre organizzazioni vicine alla Chiesa: in tutte c'è il riconoscimento della legittimità delle proteste studentesche, la richiesta di tutelare i diritti umani e l'appello a un dialogo nazionale.

Per quanto riguarda il Centro Gumilla, con la nostra rivista Sic e attraverso la Rete di azione sociale della Chiesa cerchiamo di contribuire alla depolarizzazione politica, al dialogo per la ricerca del consenso e, in ultima analisi, a creare un clima di riconciliazione. Crediamo che senza trattative e senza accordi il Paese rischi di andare in rovina. E la ricostruzione , soprattutto istituzionale, durerebbe parecchi anni, anche se il petrolio mantenesse un buon prezzo... In un numero speciale di Sic, che ha appena celebrato il suo 75° anniversario, proponiamo ulteriori vie di uscita.

Stefano Femminis

 

© FCSF – Popoli