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Ritratto di Hugo Chávez, tra mito e realtà
6 marzo 2013

Maurizio Chierici, scrittore e giornalista, è tra i massimi conoscitori in Italia della figura di Hugo Chávez, il presidente venezuelano scomparso martedì scorso. Inviato in America Latina per il Corriere della Sera negli anni delle dittature, Chierici ha poi lavorato all'Unità e scrive ora per il Fatto Quotidiano. Per realizzarne la biografia, alcuni anni fa Chierici ha accompagnato Chávez durante una campagna elettorale. In questo articolo entrano così anche i ricordi personali dell'autore.

 

 

La vita pubblica di Hugo Chávez comincia il 4 febbraio 1989: sta per compiere 34 anni. Non spara sulla folla in rivolta contro il presidente socialdemocratico Andrés Carlos Perez: ha raddoppiato il prezzo del pane e la gente urla in piazza. Chávez volta le armi contro il palazzo. Golpe improvvisato, subito arrestato. Diventa un mito per i diseredati dei barrios, migliaia di baracche nelle colline affacciate sulla capitale. Anche certi imprenditori e Tv e giornali nelle mani dei ponderosos trovano «interessante» il militare che ha sfidato i loro concorrenti. Pensano a una marionetta facile da manovrare e soffiano sull’indulto finché non torna in libertà.

L’ex prigioniero viaggia per animare il movimento inventato nel 1997: Quinta Repubblica. Negli anni di galera ha ricevuto migliaia di lettere e biglietti d’amore. Marisabel Rodriguez, giornalista dal fascino biondo, non lascia dubbi sulla simpatia: «Quando vuoi, dove vuoi». Appena fuori, Chávez trascura moglie e bambine e corre da lei. Arriva l’invito fatale: Fidel Castro lo chiama all’Avana per una conferenza su Simon Bolivar, libertador che incanta il tenente colonnello. Il quale racconta come un sogno il viaggio a Cuba. Onori da capo di Stato, tappeto rosso e poi ore ad ascoltare i comandamenti dell’uomo che gli cambierà la vita.

 

Finalmente la prima conferenza elettorale all’Hilton di Caracas. Aplomb da manager latino. Giacca, cravatta, camicia bianca dal colletto blu. Parla a braccio. Citazioni bibliche che accompagnano i numeri dell’economia. Poche ore dopo voliamo a Maracaibo assieme a Mariaisabel: sta per dargli un figlio. Quasi non lo riconosco: tuta leopard, basco rosso, frusta in mano. Furia da inquisitore che non perdona: «Farò scappare i vecchi ladri così». È il Chávez sdoppiato che annuncia quale timbro avranno le sue presidenze.

Vince le elezioni seppellendo Irene Saènz, ex Miss universo e sindaco del municipio di Chaco, zona rosa di Caracas. Giardini, belle case, vigili con monopattino elettrico, guardie armate davanti a ogni cancello. Vertici della Chiesa e miliardi sono con lei eppure Irene raccoglie appena il 3% e la voce di Chávez diventa la colonna sonora del Paese. Paga i debiti a chi gli ha dato una mano. La moglie dell’editore dell’Universal fa il ministro dell’informazione, ma gli insegnamenti di Castro lo allontanano dal vecchio potere. El Universal, El Nacional e ogni Tv privata aprono il fuoco contro il presidente che privilegia i fantasmi della povertà: riforma agraria, scuole per tutti, università pubbliche con studenti dei quartieri popolari ai quali paga lo stipendio per aprire i libri. Per la prima volta le tasse diventano una cosa seria. Piccola e grande borghesia voltano la faccia.

E il Chávez dei primi giorni sparisce nel Chávez che parla e parla per ore come Fidel. «Alò Presidente», la sua trasmissione, risveglia una Tv pubblica poco frequentata. Chávez al posto di Bruno Vespa: risponde alle telefonate, ordina in diretta ai ministri di costruire ponti, aggiustare strade. Tempo del talk show previsto, 50 minuti. Tre anni dopo supera le 5 ore. Mette il naso in ogni angolo oscuro. Le visite improvvise negli ospedali cominciano dalle cantine trasformate in pronto soccorso. Urla nei corridoi, svergogna primari.

Le riforme provano a restituire una dignità sconosciuta a milioni di senza niente, ma l’educazione militare lo condiziona: girandola di ministri liquidati e riassunti senza spiegazioni. Sempre e solo la sua parola che è la parola alla quale milioni di emarginati legano ogni speranza. Il Paese si spacca così. Poi il braccio di ferro con gli Stati Uniti, cliente principe del petrolio. Non sopporta che il «dittatore» regali il petrolio all’Avana rompendo gli embarghi, e non sopporta l’amicizia con i Paesi canaglia: Iran, Corea del Nord, Libia, Siria. poi la «minaccia» degli arsenali di Caracas dove arrivano armi russe e cinesi. Ma la folla delle ombre per anni abbandonate si aggrappa ai discount di Stato. Generi alimentari per pochi soldi, ospedali con medici cubani: i dottori venezuelani non se la sentono di lasciare le comodità di Caracas. Uno dei problemi di Chávez - racconta Teodoro Petkoff, ex tupamaros, socialdemocratico nemico del «populismo autoritario del presidente» - è il pasticcio di un’opposizione che esprime vecchie corporazioni economiche alle quali si affidano gli Stati Uniti prima di Obama. Opposizione divisa nelle antiche confraternite degli affari. Opposizione nutrita dagli aiuti paracadutati da Washington «nel nome della democrazia».

11 aprile 2002: ecco il colpo di Stato tessuto dall’ambasciatore Otto Reich, fedelissimo di Bush figlio. L’annuncio del Chávez prigioniero viene distribuito su ogni televisione da Carmona, presidente degli imprenditori . In un angolo il nunzio apostolico monsignor Duphy. Non importa se la Chiesa dei piccoli preti testimonia il cattolicesimo del presidente. Il suo governo resta «una minaccia per il mondo libero». Appena Chávez sparisce chiamo il cellulare di Mariaisabel. Non sa dov’è perché da mesi se ne è andata col bambino. «Troppo geloso. Ero stanca di finire all’ospedale col racconto d’essere caduta dalle scale…». Il golpe fallisce, comincia l’epurazione. Scappa Carmona.

 

Ortega, segretario del sindacato socialdemocratico, riprova un anno dopo col golpe economico. Sciopero che paralizza le raffinerie. Caracas non consegna petrolio, le casse restano vuote. La crisi economica comincia così e sprofonda un anno dopo l’altro: fuga di capitali, investimenti babilonesi di un governo soffocato dalla corruzione e lo strangolamento commerciale di holding che gonfiano i prezzi alle stelle. Due mesi fa il bolivar si svaluta del 40%. Eppure Chávez rivince elezioni «trasparenti», per gli osservatori del Pentagono. Ma è un trionfo simbolico. In ospedale qualche giorno dopo. Adesso commozione e bandiere, ma il Paese trema.

Maurizio Chierici

© FCSF – Popoli