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Cristiani di Babilonia: reportage iracheno
1 febbraio 2013

In Iraq, a dieci anni dal rovesciamento del regime di Saddam Hussein, la vita dei cristiani resta minacciata. Molti affrontano il dilemma tra l’esilio e una permanenza che può portare al martirio. Un viaggio dal Kurdistan a Bassora

Anche la statua di Padre Pio è arrivata nelle chiese di Baghdad, ma nulla può contro il terrore che spinge i cristiani a lasciare questa terra di nessuno che è diventato l’Iraq, a dieci anni dall’inizio dell’invasione occidentale (20 marzo 2003) che ha rovesciato la dittatura e ha poi scatenato la guerra civile. «Questo Paese è come un bimbo in fasce che crescerà seguendo le linee che gli diamo da piccolo - sospira un anziano -. Non ho dubbi: per respirare libertà dovremo aspettare non so quante generazioni». L’uomo, passato per l’esercito fedele a Saddam, poi per la pubblica amministrazione, ora è costretto all’esilio nel Kurdistan iracheno, ad Ankawa, un sobborgo di Arbil costruito appositamente per ospitare le centinaia di famiglie cristiane in fuga da rapimenti e persecuzioni a opera dei fondamentalisti musulmani.
Padre Pio, dicevamo. Ma anche la Vergine, Benedetto XVI, padre Saade e monsignor Wasim, i due preti siro-cattolici uccisi nell’attentato del 30 ottobre 2010 alla Chiesa di Nostra Signora della Salvezza, nel centro di Baghdad. Sono tutti là, appesi alle pareti delle case e delle chiese, vecchie e nuove, che spuntano fra i minareti e le mura di protezione erette dopo l’ennesima autobomba nella speranza che la prossima sia meno devastante. Potessero parlare, questi santini racconterebbero di come la loro presenza sia odiata, combattuta, da chi vuole che solo il nome di Allah campeggi non solo nella bandiera nazionale, ma anche nella politica, nella Costituzione e nelle relazioni sociali.

UN DOPOGUERRA SENZA PACE
L’Iraq non è un Paese fondamentalista. Non tutto o non ancora, perlomeno. La campagna di sangue che ha seguito la deposizione di Saddam Hussein da parte degli angloamericani dieci anni fa non ha risparmiato nessuno: musulmani sciiti hanno ucciso musulmani sunniti e viceversa; cristiani, ma anche yazidi e mandei sono stati ricacciati nel loro ruolo di minoranza, «infedeli» e facile preda del volere dei più numerosi. «Non credere a quanto dicono i cristiani - assicura Moustafa, insegnante di aramaico all’Università di Baghdad -. Tutti noi siamo stati e siamo vittime di attentati e persecuzioni. Io ho perso quattro fratelli, l’odio che lacera il nostro Paese non guarda in faccia nessuno».
Il discorso è vero, ma non fa presa sui cristiani: «È scritto nel Corano: “Uccidi gli infedeli e sarai ricompensato”. Tutto il resto sono chiacchiere. Ogni musulmano è potenzialmente un assassino, voi occidentali non lo sapete perché non li conoscete. Ma ricordati queste parole fra vent’anni: non appena loro saranno uno in più di voi, cominceranno le rivendicazioni e le violenze nel vostro Paese»: Brutus ripete quello che pare un mantra, ripetuto tra i cristiani. È difficile calarsi nella parte, spiegare che in Europa magari è diverso, perché c’è una cultura democratica da decenni e che la convivenza è la linea comune.
Non è semplice se hai davanti persone che raccontano storie come questa: «Sono nato e cresciuto a Mossul. Non abbiamo mai avuto problemi fino a quando Saddam è caduto e siamo entrati in un vuoto di potere. Allora i clan hanno iniziato a dire che quella terra è dei musulmani e noi cristiani siamo usurpatori. Mia figlia lavorava con gli americani. L’hanno sequestrata e uccisa per questo», racconta Noel, uno dei tanti padri di famiglia che ha deciso di dire «basta» per costruirsi una nuova casa e una nuova vita nella regione autonoma del Kurdistan.
«Non volevo andarmene, quello che avevo era frutto del lavoro mio, di mio padre e di mia moglie. Ma sono iniziati i problemi: lettere minatorie, scritte sui muri. Resistevamo, ancora. Poi un giorno mi hanno incappucciato davanti a casa e messo in macchina. Per tre giorni sono stato prigioniero in una stanza buia, dicevano che mi avrebbero ucciso. Poi hanno chiesto 20mila dollari per liberarmi. Finito quell’incubo ne è iniziato un altro, con un secondo rapimento finito solo quando i militari delle forze autonome curde ha fatto irruzione per liberare un connazionale prigioniero insieme a me. Ho pensato che poteva bastare».
E così anche Noel ha ingrossato le fila dei rifugiati ad Ainkawa, diecimila nuovi abitanti dal 2003, accomunati nella stessa fede, tutti impiegati fra ristoranti, Ong e negozi di alcolici.

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Testo: Andrea Milluzzi
Foto: Linda Dorigo

© FCSF – Popoli