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Dove Papa Roncalli imparò l'arte del dialogo
22/04/2014

Domenica 27 aprile - insieme a Karol Wojtyla - verrà proclamato santo Giovanni XXIII. Qui ripercorriamo una fase decisiva della vita di Angelo Roncalli: il periodo come diplomatico vaticano che - specie in Turchia - ha plasmato profondamente il suo modo di vivere il dialogo con i credenti di altre religioni. L'articolo è pubblicato nel numero di aprile di Popoli.


Così lo scorso 3 giugno, nel 50° anniversario della morte, papa Francesco ricordava Giovanni XXIII: «Il mondo intero aveva riconosciuto in lui un pastore e un padre. Pastore perché padre. Che cosa lo aveva reso tale? Come aveva potuto arrivare al cuore di persone così diverse, persino di molti non cristiani? Vorrei partire dalla pace (...): Angelo Roncalli era un uomo capace di trasmettere pace; una pace naturale, serena, cordiale; una pace che con la sua elezione al pontificato si manifestò al mondo intero e ricevette il nome della bontà. Fu questo un tratto distintivo della sua personalità, che gli permise di costruire ovunque solide amicizie e che risaltò in modo particolare nel suo ministero di rappresentante del Papa, svolto per quasi tre decenni, spesso a contatto con ambienti e mondi assai lontani da quell’universo cattolico nel quale egli era nato e si era formato. Proprio in quegli ambienti egli si dimostrò un efficace tessitore di relazioni e un valido promotore di unità, dentro e fuori la comunità ecclesiale, aperto al dialogo con cristiani di altre Chiese, con esponenti del mondo ebraico e musulmano e con molti altri uomini di buona volontà».

Il motto dello stemma episcopale di Angelo Roncalli recitava: Oboedientia et pax. Lo aveva scelto nel 1925 quando venne consacrato vescovo per essere inviato come delegato apostolico in Bulgaria. Obbedienza al Papa, ma anche al corso della vita, superando i propri progetti personali.

Durante tutta la sua carriera ecclesiastica fu sempre fedele al motto scelto. Non mancarono certo momenti duri e difficili lungo questo suo percorso, ma la fiducia totale in Dio non gli venne mai meno in tutta la sua attività diplomatica, che lo portò prima in Bulgaria dal 1925 al 1935, poi in Turchia dal 1935 al 1944 e in seguito nella nunziatura di Parigi nel 1944.

E così, ha aggiunto Francesco, «se la pace è stata la caratteristica esteriore, l’obbedienza ha costituito per Roncalli la disposizione interiore: l’obbedienza, in realtà, è stata lo strumento per raggiungere la pace. Anzitutto essa ha avuto un senso molto semplice e concreto: svolgere nella Chiesa il servizio che i superiori gli chiedevano, senza cercare nulla per sé, senza sottrarsi a nulla di ciò che gli veniva richiesto, anche quando ciò significò lasciare la propria terra, confrontarsi con mondi a lui sconosciuti, rimanere per lunghi anni in luoghi dove la presenza di cattolici era scarsissima».

IN MEZZO ALLA GENTE
Ma è proprio l’obbedienza che forgiò «l’uomo» Roncalli - diplomatico e vescovo -, fornendogli un bagaglio carico di esperienze, soprattutto in Turchia, circa la tradizione ortodossa e islamica, il giudaismo e i processi di laicizzazione, e che lasciò in lui segni indelebili, plasmando profondamente il suo originalissimo modo di vivere il dialogo.

Lui, che proveniva da una famiglia povera, non si vergognò mai delle sue origini contadine, anzi, le considerava un dono prezioso che gli permetteva di sentirsi più vicino a tutti. Mentre era a Istanbul andava a visitare gli ammalati in ospedale, i bambini negli orfanotrofi, i carcerati nelle prigioni, i poveri del quartiere, o gli anziani nelle case di riposo. Il suo cuore vibrava e si inteneriva tutte le volte che poteva esercitare il suo ministero episcopale come un buon padre. Si muoveva prendendo tram e vaporetti, camminando a piedi, per essere con e come la gente comune.

Da subito, inoltre, fece capire che la sua casa, la casa del vescovo, era la casa del padre dei poveri. Nessun indigente doveva uscire da quella casa senza essere stato consolato in qualche modo.

Se, con profonda sincerità e semplicità, ha saputo mettersi al livello delle persone più umili, allo stesso tempo è stato capace di intessere rapporti di cordiale amicizia e stima anche con autorità politiche di spicco e con persone lontane dalla Chiesa e dalla fede cristiana, riuscendo a creare anche nelle sfere governative turche un’atmosfera di amicizia verso la Santa Sede.

Sabri Çağlayangil, per tre volte ministro degli Esteri turco nei governi degli anni Sessanta e Settanta, il 16 novembre 1986, durante la settimana roncalliana a Istanbul, rievocò così la personalità del prelato: «Egli sviluppò rapporti eccellenti, fondati su un sentimento di mutuo rispetto, con le autorità locali, quando non esistevano ancora relazioni diplomatiche fra Turchia e Santa Sede; esperto diplomatico con una voce amichevole, dolce, convincente, amò la Turchia e i turchi lo amarono».

E in un mondo in cui i cristiani erano la minoranza, Roncalli si guardava intorno e il suo sguardo diventava un interrogativo spirituale: «A chi appartengono queste anime?», annotava ripetutamente in quegli anni nelle sue agende. L’uomo, qualunque essere umano, con i suoi valori e i suoi innegabili diritti, era ciò che più stava a cuore a Roncalli. La via caritatis per lui non era che la manifestazione più limpida della via veritatis, per realizzare la fraternità universale e la missione della Chiesa come madre di tutte le nazioni.

Nello scorrere le pagine delle agende scritte in quegli anni si comprende più profondamente come è proprio a partire dal suo servizio da Delegato apostolico che, una volta eletto Papa, egli abbia stupito tutti indicendo un Concilio che si caratterizzò subito per la sua marcata «natura pastorale», un Concilio ecumenico che, facendo «uso della medicina della misericordia piuttosto che della severità» consentisse alla Chiesa di fare un balzo in avanti, proponendo la dottrina tradizionale in un modo più adatto alla sensibilità moderna, perché la Chiesa cattolica potesse riprendere a parlare al mondo e alle altre religioni, anziché arroccarsi su posizioni difensive.

E lì, in quel lembo di terra, dove ogni angolo trasuda di testimonianze e reliquie della storia del primo cristianesimo, maturò uno sguardo aperto tra passato e futuro.


«LA CHIESA NON È UN MUSEO»
Macinando migliaia di chilometri in treno per andare a incontrare le piccole e sparute comunità cristiane sparse sul territorio dell’Anatolia, imparò a conoscere la Turchia, «teatro dove si svolse la vita assai movimentata della Chiesa per tante generazioni; qui le diocesi antiche erano numerose come le stelle del cielo (…). Oriente pieno di fascino e di mistero a cui appartengono i rappresentanti di quelle razze che prime udirono il fatidico messaggio del Principe degli Apostoli».

E al centro di questa viva attenzione ai padri e alla storia della Chiesa c’era la convinzione della loro intramontabile attualità. Lo mise in risalto da Papa, affermando che la «Chiesa cattolica non è un museo di archeologia. Essa è l’antica fontana del villaggio che dà acqua alle generazioni di oggi, come la diede a quelle del passato». Ancora più esplicitamente, nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II dell’11 ottobre 1962, dichiarò: «Il nostro dovere non è soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci occupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera che la nostra età esige, proseguendo il cammino che la Chiesa compie da venti secoli».

Con questa stessa curiosità per le vestigia del passato e altrettanta passione per il nuovo, si aprì al mondo ortodosso ed ebraico.

Da qui la sua semplicità, che nasceva dalla prudenza e dall’astuzia evangelica per parlare e tacere, per tessere dietro le quinte contatti e relazioni, per stabilire ponti di pace e di unità, per manifestare l’amore della e per la Chiesa, per salvare i perseguitati e aiutare i più deboli. Tanto che, il 28 maggio 1939, fu il primo rappresentante papale a varcare la soglia del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli, dopo secoli di incomprensioni, rivalse e sofferenze in seguito al reciproco anatema tra Leone IX e Michele Cerulario nel 1054. E grazie all’aiuto di von Papen tra il 1943 e il 1944 riuscì a salvare migliaia di vite umane dall’Olocausto.

Nelle difficoltà di carattere religioso e politico, dunque, non adottò un accorto equilibrismo politico, né una fredda equidistanza o un’asettica neutralità, bensì quella «diplomazia della mitezza» che, con spirito di carità e comprensione, consentì di porre le basi di un dialogo con le diverse confessioni cristiane nel Paese, con le autorità della repubblica laica, con il mondo musulmano e con la comunità ebraica.

Mariagrazia Zambon
Autrice di Vescovo e pastore (San Paolo 2013, pp. 184, euro 18,50),
è una laica consacrata della diocesi di Milano, che vive in Turchia dal 2001



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