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Elezioni in Messico, in cerca di una svolta
28 giugno 2012

Sessantamila morti in sei anni: è il drammatico bilancio della presidenza di Felipe Calderón, incapace di arginare le violenze scatenate dai narcos e che poco ha fatto anche per ridurre gli squilibri economici. Il Messico che domenica 1° luglio sceglie il nuovo presidente è un Paese stanco, che cerca di uscire da una spirale di violenza senza confronti. L'analisi del gesuita messicano Alfredo Zepeda, pubblicata sul numero di giugno-luglio di Popoli.

Sessantamila morti, tra assassinati e scomparsi: è il bilancio dei sei anni di presidenza di Felipe Calderón, in Messico, a pochi mesi dalla fine del suo mandato. Nel 2006 le elezioni che lo portarono al potere furono contrassegnate da brogli, avallati dall’Istituto elettorale federale: così almeno sostennero una parte importante della popolazione e numerosi intellettuali e accademici. Molti riconobbero simbolicamente come legittimo presidente il candidato di centro-sinistra, Andrés Manuel López Obrador.

Sebbene non lo avesse esplicitato durante la campagna elettorale, Felipe Calderón dichiarò guerra alle mafie del narcotraffico già pochi giorni dopo il suo ingresso al Palazzo nazionale di Città del Messico. Già alcune settimane dopo era evidente come le polizie dei vari Stati e lo stesso esercito mandato nelle strade a combattere questa guerra fossero infiltrati dalla criminalità organizzata. La guerra assunse allora le sembianze di un confronto tra le mafie del narcotraffico e il narcogoverno.
Negli ultimi anni il presidente ha ripetutamente sbandierato la cattura dei capi, ma l’impressionante media di mille morti al mese non è diminuita. La lotta contro il narcotraffico è fallita perché l’esercito, il cui compito è la difesa della sovranità nazionale, è stato trasformato in un corpo di polizia.

L’esperienza internazionale ha mostrato che questa è una strategia sbagliata. L’esercito è infiltrato dalle mafie ed è diventato, di fatto, «amministratore» della produzione e del traffico di marijuana e cocaina.

Intanto, ha fatto il giro del mondo lo scandalo delle migliaia di donne assassinate, soprattutto nel Nord del Paese, in particolare nello Stato di Chihuahua, lungo la frontiera con gli Stati Uniti. A Veracruz, nei primi mesi del 2012, si contano già almeno cento donne assassinate, quaranta delle quali poco più che bambine.

C’è poi la piaga degli omicidi di giornalisti. Il 28 aprile i vicini hanno trovato Regina Martínez con il collo spezzato nella sua casa di Veracruz. Era una giornalista di Proceso, la rivista più prestigiosa e indipendente del Paese. Cinque giorni dopo, nella Giornata mondiale della libertà di stampa, altri tre fotoreporter sono stati trovati morti nella stessa zona.
La cosa peggiore per le famiglie delle vittime è l’impunità dei colpevoli. Solo per il 2% degli omicidi di questi anni si è arrivati a un processo. I sequestri fanno ormai parte della vita quotidiana. Quotidiani e impuniti sono anche gli assalti e i massacri di migranti in transito dal Centro America verso gli Stati Uniti. La violenza che si vive oggi non ha confronti negli ultimi ottant’anni della storia del Messico.

Il fallimento di Felipe Calderón non è però solo su questo piano. Si era autoproclamato il «presidente dell’occupazione». Ebbene, in cinque anni e mezzo hanno perso il lavoro più di 3 milioni di lavoratori. 40mila sono rimasti disoccupati in un colpo solo quando Calderón ha deciso di chiudere la Compañía Luz y Fuerza del Centro, importante azienda pubblica del Messico per la produzione di energia elettrica, per favorire l’entrata di multinazionali. E questo nonostante la Costituzione messicana consenta la produzione di energia elettrica e l’estrazione di petrolio esclusivamente ad aziende statali.

Un’altra voce vergognosamente negativa nel bilancio del governo di Felipe Calderón è il rapporto con i popoli indigeni. Le parole più adatte per definirlo sono «abbandono» e «aggressione». Il Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), per settant’anni aveva mantenuto una certa vicinanza con le comunità indigene, non fosse altro che per esercitare un controllo su di esse. Questo rapporto entrò in crisi quando, nel 1994, i popoli indigeni si ribellarono contro lo Stato messicano chiedendo libertà, giustizia e autodeterminazione, in particolare con la rivolta zapatista nel Chiapas. I successivi governi del Partito di Azione Nazionale (Pan) - subentrato al Pri nel 2000 con la vittoria di Vicente Fox, a cui è succeduto Calderón - sembrano avere ignorato che il Messico è il Paese con il maggior numero di indigeni dell’America latina: 15 milioni di persone, che parlano 65 lingue diverse.

Non si può governare il Messico senza tenere conto che si tratta di un Paese dalle radici indigene, una nazione fatta di molte nazioni, ognuna con diritto a un proprio territorio, con le sue sementi tradizionali e la sua biodiversità, con sistemi normativi comunitari e leggi precedenti all’invasione spagnola.

Il governo proclama all’estero il successo del programma «Opportunità» come arma decisiva nella lotta contro la povertà. Ma questo programma non è altro che una sovvenzione di pochi pesos elargiti alle comunità povere di indigeni e contadini. Sono quelle che il vescovo brasiliano Pedro Casaldáliga definì «briciole solidali della miseria». Intanto compagnie come le canadesi Fortuna Silver e Gold Group Mining ricevono il permesso di saccheggiare i territori indigeni con le loro miniere. Le multinazionali Halliburton e Weatherford trivellano migliaia di pozzi di petrolio nella regione del Golfo del Messico, creando problemi alle comunità náhuatl, totonacos e otomí.

Felipe Calderón si lascia alle spalle un Paese che non vede la fine del tunnel della violenza e con un’accresciuta distanza tra ricchi e poveri. In Messico vive Carlos Slim, monopolista della telefonia, l’uomo più ricco del mondo secondo la rivista Forbes. Nella stessa nazione 25 milioni di persone vivono in condizioni di povertà simili a quelle che si trovano ad Haiti o negli Stati più poveri dell’Africa.

Il Paese affronta ora un nuovo momento cruciale: le elezioni presidenziali e politiche del 1° luglio. Il candidato del Pri, Enrique Peña Nieto, è un perfetto prodotto mediatico il cui volto truccato è più importante delle sue idee. È sposato con un’attrice di telenovelas - Angélica Rivera, più nota con il nome d’arte di Gaviota («gabbiano») - e la candidatura è stata pianificata e spinta dal marketing di Televisa, il più importante network televisivo privato della televisione. Ma dietro alla sua figura ci sono i gruppi imprenditoriali in rete con le imprese multinazionali. La pubblicità martellante lo ha portato in cima ai sondaggi.
Il Pan presenta Josefina Vázquez Mota, ex ministro dell’Istruzione di Felipe Calderón, che ha lasciato il Paese bloccato in uno dei peggiori sistemi educativi del mondo. I contenuti dei programmi scolastici, soprattutto nelle aree rurali e indigene, sono talmente estranei al contesto culturale ed economico che i giovani disertano la scuola superiore per andare a cercare lavoro nelle città o - clandestinamente - negli Stati Uniti.

Andrés Manuel López Obrador è di nuovo candidato per la coalizione di centro-sinistra, Movimento Progressista. È il candidato che con più chiarezza lascia prevedere un cambio di strategia per combattere la violenza attraverso il consenso civile.
La gerarchia ecclesiastica tradizionalmente simpatizza con il Pan, che in origine - prima di convertirsi al neoliberalismo - era una sorta di Democrazia Cristiana. Ma in questa congiuntura i vescovi si sono limitati a invitare al voto libero e a organizzare alcuni laboratori sulla democrazia. In modo un po’ più esplicito la Conferenza degli istituti religiosi del Messico ha denunciato: «Quelli che aspirano a governare il Paese sembrano più preoccupati della propria immagine e delle percentuali nei sondaggi che non di predisporre una soluzione ai problemi fondamentali del Paese (...). Vediamo la necessità di promuovere nelle nostre comunità e opere una vocazione al servizio della pace con giustizia e dignità, al fianco e a favore di coloro che vivono alle frontiere dell’esclusione».

Nessun governo potrà mandare avanti questo Paese senza una partecipazione effettiva dei cittadini e delle comunità alle decisioni e alla definizione delle strategie di base: lotta per la pace e per i diritti umani, educazione, economia, lavoro e ricostruzione del tessuto sociale.

Alfredo Zepeda SJ
© FCSF – Popoli