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Eni in Africa, un bilancio negativo
«Se si guarda all’attività dell’azienda da una prospettiva di giustizia ambientale, sociale e di miglioramento delle condizioni di vita delle comunità locali, il bilancio delle attività dell’Eni in Africa non si può dire positivo». Elena Gerebizza, ricercatrice della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, da anni analizza le strategie del Cane a sei zampe e ne verifica sul terreno le conseguenze. E il suo giudizio sull’operato della società petrolifera di San Donato in Africa è negativo.

Quali conseguenze ambientali derivano dall’attività di estrazione dell’Eni in Africa?
L’impatto ambientale dell’estrazione è fortissimo. In Paesi come la Nigeria, nel quale l’azienda opera dagli anni Settanta, si è arrivati a un degrado assoluto. Le comunità che in passato vivevano in situazioni di sussistenza, ma in un ambiente sano, oggi non possono più coltivare la terra né bere l’acqua delle sorgenti perché terreno, acqua e atmosfera sono inquinati. Nei giacimenti su terraferma, l’imbatto ambientale è evidente e va al di là di ciò che possono essere i danni che normalmente produce un’attività come quella dell’estrazione di idrocarburi. Secondo le valutazioni di Environmental rights action, un’organizzazione locale nigeriana, gli impianti dell’Eni non solo sono quelli che hanno maggiori perdite, ma sono quelli in cui le perdite vengono riparate con maggiore ritardo. Quando c’è uno sversamento, i tecnici intervengono dopo giorni, se non settimane, riparano la falla, ma non bonificano la zona.

In che modo l’attività estrattiva porta a un inquinamento atmosferico?
Attraverso il fenomeno del cosiddetto gas flaring cioè l’emissione di gas che fuoriescono con l’estrazione del petrolio. In America, Asia ed Europa questi gas vengono recuperati e utilizzati per produrre energia elettrica. In Africa invece vengono bruciati nell’atmosfera rilasciando sostanze fortemente inquinanti. In Nigeria esiste una legislazione che proibisce l’emissione di gas flaring eppure l’Eni e altre compagnie continuano a bruciarlo nell’atmosfera.

In passato l’Eni aveva annunciato di voler creare impianti per il riutilizzo del gas flaring. Sono stati realizzati?
La realtà che abbiamo trovato visitando la zona è che l’impianto principale dell’Eni continua a bruciare gas in torcia (sono almeno cinque le torce attive). La centrale che dovrebbe produrre energia elettrica grazie al gas dell’estrazione è entrata in funzione, ma non siamo certi con quale gas funzioni. Il gas che deriva dall’estrazione esce in maniera discontinua così questa centrale, per evitare tempi morti, utilizza anche altro gas. Non sappiamo quindi se la centrale utilizza il gas dell’estrazione o altro gas. Durante la costruzione dell’impianto e attraverso successivi accordi con le comunità, l’azienda si era poi impegnata a fornire energia alla popolazione che vive sul territorio. Ma ciò non è ancora avvenuto.

Alcune Ong nigeriane hanno denunciato la presenza di contractors in difesa degli impianti. Conferma questa presenza?
Tutte le società petrolifere utilizzano contractors, immagino lo faccia anche l’Eni. Anche se non ho le prove di questo. La cosa più grave però è che nel Delta del Niger c’è una forte presenza armata di militari nigeriani che proteggono gli impianti petroliferi. In molti casi questi militari si ritrovano contro le comunità locali o, comunque, non difendono i diritti delle popolazioni locali, ma quelli delle aziende.

L’Eni ha annunciato l’avvio di un progetto di sfruttamento delle sabbie bituminose in Congo Brazza che potrebbe avere un forte impatto sull’ambiente. A che punto è il progetto? E quale conseguenze ha prodotto?
In Congo Brazzaville l’Eni è presente dagli anni Settanta con estrazioni offshore e solo nel 2008 ha iniziato a operare con estrazioni sulla terraferma. Negli anni scorsi è stato annunciato l’avvio del progetto per lo sfruttamento delle sabbie bituminose. Siamo ancora in una fase «pilota», ma i problemi sul posto sono già evidenti, soprattutto in merito all’inquinamento delle acque.

Quali ricadute economiche hanno sulle popolazioni locali le attività di estrazione?
Non c’è ricaduta positiva sulle comunità locali. In tutti i Paesi che sono governati in modo autoritario, le comunità che vivono nei luoghi in cui si estrae petrolio non solo non godono delle royalties. Le aziende petrolifere spesso si impegnano nei contratti a realizzare piccoli investimenti (ambulatori, scuole, pozzi, ecc.), ma queste opere non compensano in alcun modo i danni causati alle comunità. Nei casi peggiori, come quello della Nigeria, le opere non vengono neppure costruite perché i soldi si perdono nei vari passaggi di mano.
e.c.
© FCSF – Popoli