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Etiopia, il futuro incerto dopo Meles
7 settembre 2012
Domenica 2 settembre si sono svolti ad Addis Abeba i funerali del premier etiope Meles Zenawi, morto il 20 agosto, all’età di 57 anni, per una misteriosa infezione. La cerimonia ha definitivamente chiuso un’era nella quale il politico tigrino ha governato con mano di ferro il Paese e ha aperto una fase di transizione piena di incognite.

«Meles - spiega Matteo Guglielmo, analista della rivista italiana di geopolitica Limes - era un uomo politico molto abile nel trovare gli equilibri che gli permettevano di tenere le redini di uno Stato con 80 milioni di abitanti e moltissime etnie. L’incognita che si presenta oggi è se il sistema negli anni scorsi si sia retto solo sul carisma del leader oppure se Meles abbia creato un apparato in grado di reggere le sorti dell’Etiopia anche dopo la sua morte. Credo che Meles sia stato una personalità importante per il funzionamento del federalismo etnico etiope, ma penso anche che la classe politica attuale voglia continuare sulla sua scia. L’interrogativo è: ne sarà capace?».

Dal punto di vista internazionale, Meles era visto come un falco, cioè come un politico spregiudicato sia in politica interna sia in quella estera. Ricordiamo per esempio l’intervento in Somalia nel 2006 e nel 2011. Tuttavia Meles non rappresentava l’ala più dura del Tplf, il partito di governo. Quale corrente della coalizione di governo riuscirà a spuntarla nei prossimi mesi? L’ala più dura, che vuole un ruolo di maggior protagonismo militare nella regione? O quella che invece vuole la riconciliazione con l’Eritrea? «Hailemariam Desalegn - continua Guglielmo -, il premier designato a succedergli (almeno fino alle elezioni del 2015), rappresenta la continuità di pensiero con Meles. È una persona che è stata scelta da Meles stesso, però dovremo vedere quali effetti produrrà la dialettica che si andrà a dipanare nel lungo periodo in Etiopia».

In questi giochi di potere le forze armate non rivestiranno un ruolo determinante perché non hanno una propria autonomia. «Meles - osserva Guglielmo - ha sempre avuto un’attenzione particolare nella nomina dei generali e dei vari componenti delle forze armate rispettando gli equilibri etnici. Ciò è sempre stato motivo di orgoglio per Meles perché questo assetto etnico gli ha permesso di lanciarsi in campagne militari come quella in Somalia, nella quale sono morti molti soldati, e di non aver nessun tipo di ritorno negativo né da parte delle forze armate né della popolazione. Ciò denota un controllo molto forte sugli apparati dell’esercito e sull’opinione pubblica».

Dal punto di vista internazionale non dovrebbero esserci cambiamenti di indirizzo. In questi ultimi anni, Meles era riuscito a mantenere un equilibrio tra la solida alleanza con gli Stati Uniti (tanto da diventarne la longa manus nella guerra contro il fondamentalismo islamico in Somalia) e la Cina (partner strategico per la crescita economica del Paese).
«L’Etiopia - sottolinea Guglielmo - continuerà a essere un pilastro della politica regionale degli Stati Uniti nel Corno d’Africa. Addis Abeba ha però anche un rapporto preferenziale con la Cina. Ricordiamo che Meles aveva nominato come ambasciatore a Pechino Seyoum Mesfin, che da sempre era indicato come il suo delfino. Così facendo Meles si è tolto di torno un pericoloso avversario politico, ma ha anche inviato in Cina uno dei suoi migliori collaboratori. D’altra parte, Meles non ha mai nascosto la sua ammirazione per il modello “sviluppista” cinese. Un modello in cui lo Stato interviene pesantemente nell’economia (lasciando però spazio all’iniziativa privata), a scapito della competizione democratica. Anche in questo caso Meles si è però rivelato un politico astuto. È vero che in Etiopia non si può parlare di democrazia, ma almeno formalmente Meles ha salvato le apparenze. Ha indetto le elezioni (sebbene abbia sempre vinto, anche in modo non trasparente, il suo partito) e ha aperto al multipartitismo (anche se solo sulla carta e con una dura repressione del dissenso). Ciò è bastato all’Occidente per farne il proprio “campione” nel Corno d’Africa e dirottare gli investimenti nel Paese invece che in Eritrea, a Gibuti o in Uganda».
Enrico Casale
© FCSF – Popoli
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