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Frattura islamica: alle radici dell'eterno conflitto tra sciiti e sunniti
16 maggio 2013

Le divisioni tra sunniti e sciiti che risalgono al tempo dei primi successori del profeta si riflettono oggi in uno scontro religioso e geopolitico che infiamma tanta parte del Medio Oriente. Nel numero di maggio 2013, Popoli approfondisce il tema con l'analisi di un esperto, una mappa delle divisioni, tabelle numeriche e un glossario. Pubblichiamo una parte del servizio.


I recenti avvenimenti siriani hanno portato alla luce la natura sempre più settaria dell’attuale geopolitica mediorientale. Due entità esplicitamente sciite, la Repubblica islamica dell’Iran e gli Hezbollah libanesi, sostengono il regime di Bashar al-Assad, che è dominato dagli alauiti, membri di una setta che ha le sue radici nella storia dello sciismo. Sul fronte opposto, molti dei più feroci oppositori di Assad sono militanti sunniti (alcuni affiliati ad al-Qaeda) che godono di sostegno in Arabia Saudita, un Paese la cui ideologia salafita wahabita è fortemente contraria allo sciismo.

Per comprendere questa lotta è utile conoscere la origine storica delle divisioni tra musulmani. Lo sciismo emerse nel VII secolo a causa di una disputa politica sulla leadership della ummah, la comunità dei credenti, dopo la morte del profeta Muhammad nell’anno 632. La maggior parte dei musulmani, in seguito chiamati sunniti, sostennero il principio dell’elezione nella scelta del califfo come successore del profeta. Ma una minoranza insisteva sul fatto che il califfato dovesse essere riservato al cugino e genero di Muhammad, Ali ibn Abi Talib, e alla discendenza di questi e di sua moglie Fatima. Questa fazione era conosciuta come Shi‘at Ali, «i seguaci di Ali». Questi shia si opponevano ai leader musulmani contrari a offrire il califfato ad Ali.

Ali riuscì a ottenere il califfato per cinque anni, fino al suo assassinio nel 661. Ulteriori tragedie colpirono i suoi discendenti. Secondo fonti sciite, il suo figlio primogenito, Hasan, fu avvelenato per ordine del califfo regnante. Il titolo di imam passò, allora, al figlio minore, Husain ibn Ali.

QUALE IMAM?
Il termine «imam» è importante
per comprendere le differenze dottrinali tra sunniti e sciiti. Tutti i musulmani usano questa parola per indicare la «guida della preghiera», chi conduce la congregazione nel culto. Ma la maggior parte degli sciiti, specialmente quelli che appartengono alla Ithna-‘Ashari - i duodecimani - finora il più grande gruppo all’interno dello sciismo e religione di Stato in Iran, usano il termine imam in un senso più ristretto, per riferirsi al legittimo leader spirituale dell’intera ummah. Gli sciiti duodecimani insistono nel ritenere che l’imam debba essere un diretto discendente di sangue del profeta e che egli sia ma‘sum (senza peccato, perfetto e divinamente protetto dall’errore) e mansus (scelto da Allah come guida e perciò esente da qualsiasi processo elettorale umano). Il primo di questi imam, secondo gli sciiti duodecimani, fu Ali e il terzo suo figlio Husain.

Nell’anno 680, su esortazione dei suoi sostenitori di Kufa, in Mesopotamia, Husain partì dall’Arabia insieme a un piccolo gruppo di famigliari e collaboratori verso l’Iraq, per organizzare una ribellione contro il califfo regnante, Yazid ibn Mu‘awiyah. Ma i soldati di Yazid intercettarono Husain nei pressi del fiume Eufrate in un luogo chiamato Kerbela (oggi venerato come la principale meta di pellegrinaggio dello sciismo). Non volendo che Husain diventasse un martire né un riferimento per un ulteriore resistenza sciita, Yazid ordinò ai suoi soldati di costringerlo ad arrendersi. I soldati misero sotto assedio Husain e la sua famiglia, impedendogli di rifornirsi di cibo e acqua. Husain e i suoi soffrirono i tormenti della sete sotto il sole dello spietato deserto iracheno. I predicatori sciiti raccontano queste sofferenze con vividi dettagli durante le cerimonie annuali del muharram, il mese islamico in cui avvenne l’assedio di Kerbela.

Alla fine Husain preferì morire piuttosto che arrendersi. All’Ashura, il decimo giorno del muharram, Husain morì in combattimento contro le forze di Yazid e ciò pose fine alle speranze degli sciiti duodecimani di reclamare il califfato.
Fu esattamente questo fallimento politico a produrre una ascesa dello sciismo come distinta tradizione teologica all’interno dell’islam. I teologi sciiti sostennero che Husain aveva la premonizione di ciò che sarebbe accaduto a Kerbala, ma che volontariamente si sacrificò per il bene della ummah. In cambio, Allah gli concesse il potere di shafa‘ah, di intercedere per i peccatori. Predicatori che ho incontrato in India e in Pakistan narravano leggende su Fatima che continua a piangere il proprio figlio martirizzato, anche ora che è in paradiso, ma è confortata ogni volta che sulla terra la gente si raduna per commemorare i martiri di Kerbela. Husain eserciterà il suo potere di shafa‘ah in favore di chiunque si unisca a sua madre nel cordoglio e verserà lacrime in ricordo di quegli eventi.

Questi riti di cordoglio vengono chiamati matam. Durante il muharram i predicatori raccontano le sofferenze dei martiri con l’esplicito proposito di portare le loro congregazioni a piangere e a gemere ad alta voce. Ogni anno, nel giorni che precedono l’Ashura, gli sciiti duodecimani tengono processioni in cui cantano nauhajat (poemi-lamentazioni in onore di Husain e degli altri martiri di Kerbela) e battono il tempo ritmicamente colpendosi il petto. In Paesi come l’India o il Pakistan, molte matami guruhan (le confraternite di lamentazioni) vanno oltre, organizzando pubbliche processioni in cui centinaia di uomini si autoflagellano con coltelli, mazze ferrate o catene, un rituale controverso ma popolare.

Un’altra pratica tipica dei duodecimani (da cui deriva il loro nome) è la venerazione per il dodicesimo imam. Essi infatti ritengono che nel IX secolo Muhammad al-Muntazar, il dodicesimo imam, fosse sul punto di essere ucciso dal califfo sunnita regnante. Allah, però, intervenne e lo protesse consentendogli di entrare nell’al-ghaybah (occultamento), diventare invisibile ai propri persecutori. Il dodicesimo imam è ancora vivo, ma tornerà come al-Mahdi («l’unico divinamente guidato») per annunciare il Giorno del giudizio, ricolmare la terra di giustizia ed eseguire la intima, la vendetta o punizione contro tutti coloro che hanno fatto soffrire gli sciiti.

GLI «ERETICI» SIRIANI
La storia e i rituali fin qui descritti meritano di essere conosciuti perché sono legati alle crescenti e feroci polemiche tra musulmani connesse al tentativo della Repubblica islamica dell’Iran di ottenere una leadership globale sull’islam. Il regime di Teheran, ben consapevole della diffusa ostilità contro gli sciiti tra le popolazioni sunnite, ha perseguito una politica - risalente al tempo dell’ayatollah Ruhollah Khomeini - che non sottolineava troppo la propria identità sciita nei pronunciamenti indirizzati all’uditorio musulmano nel suo complesso. Da qui il sostegno iraniano al gruppo militante di Hamas; da qui le frequenti apparizioni televisive del presidente Ahmadinejad in cui si vedono carte della Palestina e foto della Cupola della roccia a Gerusalemme. Il sostegno ai militanti palestinesi è un tentativo di conquistare popolarità tra gli arabi sunniti concentrando l’attenzione sui nemici di sempre: Israele, il sionismo, l’America.

Dal canto loro, i salafiti wahabiti che hanno base in Arabia Saudita, desiderosi di far deragliare il percorso dell’Iran verso la leadership, hanno ricordato ai sunniti quelle differenze settarie che tengono vivo il sentimento antisciita. Ad esempio, la pratica sciita, antica di secoli, della sabb al-sahabah, il vituperare i compagni. Ancora oggi gli sciiti biasimano quei compagni di Muhammad che impedirono ad Ali ibn Abi Talib di accedere al califfato. In particolare rimproverano i primi due califfi, Abu Bakr e Umar e, poiché i sunniti riveriscono queste due figure come leader musulmani «ben guidati», la questione è ancora oggi scottante. In parte per questo motivo, gli sciiti talvolta sono derisi come rafidi (rinnegati), un termine spregiativo che ritorna nelle polemiche antisciite di oggi.

Tali polemiche settarie sono sorte anche tra gli schieramenti politici palestinesi, anche se quasi tutti i palestinesi siano sunniti. Membri di Fatah hanno iniziato a insultare i rivali di Hamas chiamandoli «sciiti», per il sostegno che Hamas riceve da Teheran.
Fratture di questo tipo sono evidenti in Siria, dove il regime è dominato dagli alauiti che sono conosciuti anche con il nome poco lusinghiero di «nusairi». Questo nome deriva da Muhammad ibn Nusair, un predicatore del IX secolo che, secondo gli studiosi di eresie musulmane, sosteneva la natura divina dell’imam Ali e il rango di profeta per se stesso. Perciò i nusairi costituiscono un gruppo di ghulat (estremisti dottrinari), musulmani la cui venerazione per il primo imam è così eterodossa da essere respinti come eretici.

Oggi i nusairi preferiscono il titolo di alauiti per sottolineare la loro venerazione per Ali, figura rispettata da tutti i musulmani, piuttosto che la loro derivazione storica da un predicatore medievale la cui dottrina è sospetta.
Gli insegnamenti dei nusairi-alauiti riflettono un misto di influenze musulmane, pagane e forse anche cristiane. La loro fede nella tanasukh (trasmigrazione delle anime) è legata al sistema etico della ricompensa e della punizione: i malvagi si reincarnano come cani o serpenti, mentre le anime dei giusti salgono al cielo e hanno un posto fra le stelle. Gli alauiti siriani che ho incontrato a Tartus e a Hosn Suleiman anni fa descrivevano Allah come «inconoscibile e invisibile, un grande segreto». Aggiungevano che «Ali è il mezzo attraverso cui Dio manifesta se stesso a noi». Le mie fonti riconoscevano che le loro liturgie includevano la possibilità di bere vino, cosa che ha portato i musulmani ortodossi a condannare questa setta per la presunta influenza di una pratica cristiana.

Disprezzati per secoli dai sunniti così come dalla maggioranza sciita dei duodecimani, gli alauiti sono rimasti una minoranza impoverita ai margini della società siriana, rifugiandosi nelle zone montagnose della costa. Tale situazione iniziò a cambiare durante il dominio francese sulla regione (1920-1946), quando molti alauiti si arruolarono nelle forze coloniali francesi. Nel periodo postcoloniale furono proprio i militari dominati dagli alauiti a prendere il potere e a consentire alla famiglia Assad di affermare il proprio controllo.

È comprensibile che gli Assad, membri di una setta respinta dagli altri musulmani, abbiano abbracciato l’ideologia baathista, che dava enfasi al secolarismo panarabo più che all’identità islamica come mezzo per raggiungere l’unità nazionale e regionale. Tuttavia gli alauiti restano ben consapevoli dello stigma di ghuluww (estremismo dottrinario) che hanno ancora appiccicata. Perciò nel 1973 Hafez al-Assad, il padre dell’attuale presidente Bashar, coltivò un rapporto con Musa al-Sadr, un prestigioso mullah sciita duodecimano e capo del Alto consiglio sciita libanese. Assad riuscì a ottenere da al-Sadr una fatwa, cioè un decreto religioso, secondo cui gli alauiti costituiscono di fatto una comunità ortodossa all’interno dell’islam sciita. Questo non ha impedito ai sunniti di continuare a detestarli come eretici, ma testimonia il desiderio degli alauiti di essere accettati come membri della ummah musulmana.

LO SCONTRO YEMENITA
La competizione tra sunniti e sciiti è diventata evidente in tempi recenti anche nel campo delle conversioni religiose da una denominazione all’altra all’interno dell’islam. Un luogo in cui avviene questa competizione è lo Yemen e il bersaglio è un segmento della popolazione locale conosciuta come «zaiditi». L’insegnamento religioso degli zaiditi, anche se di derivazione storica sciita, occupa una posizione dottrinale intermedia tra sciismo e sunnismo. Gli zaiditi che ho incontrato alcuni anni fa a Sanaa, la capitale dello Yemen, riconoscevano che, fin dall’abolizione della monarchia retta da un imam zaidita (1962) e il conseguente declino del potere politico, molti giovani zaiditi hanno perso i punti di riferimento ideologici e le certezze della propria identità comunitaria.

Missionari sostenuti con fondi sauditi sono riusciti a convertire alcuni zaiditi al wahabismo puritano. Altri zaiditi, invece, sono attirati dalla propaganda dell’Iran khomeinista. Fonti governative dello Yemen accusano l’Iran di finanziare la ribellione houthi che da quasi otto anni è in corso nella provincia di Saada, lungo il confine con l’Arabia (gli houthi sono militanti zaiditi i cui leader vengono dalla famiglia di Badr al-Din al-Houthi). Questi negano di essere finanziati da Teheran e respingono l’accusa avanzata da molti sunniti dello Yemen per cui sarebbero segretamente convertiti allo sciismo duodecimano dell’Iran. Ma gli zaiditi incontrati a Sanaa mi hanno confermato che gli houthi traggono ispirazione dall’Iran e da Hezbollah e che mirano a far parte di un movimento mondiale, una lotta universale contro ciò che percepiscono come forze sataniche presenti nel mondo.

Questo movimento allarma gli ideologi antisciiti. Un leader sunnita incontrato a Sanaa si è riferito con sdegno a coloro che definiva «pedine» yemenite di Teheran che sarebbero parte di una «cospirazione iraniana per dominare da lontano il Paese». Lo Yemen rappresenta, perciò, un campanello di allarme per ciò che può accadere in futuro: una crescente competizione tra ideologi sunniti e sciiti per la leadership dell’islam globale.

David Pinault
Docente di Studi islamici alla Santa Clara University, dei gesuiti della California

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