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Gli armatori: gli italiani non c'entrano
23 novembre 2010
I pescherecci italiani non sono coinvolti nella pesca illegale in Africa occidentale e nel Mediterraneo meridionale. Luigi Giannini, direttore di Federpesca (Federazione nazionale imprese di pesca, l’associazione degli armatori italiani), smentisce le accuse di complicità delle flotte di pescherecci italiani e, anzi, contrattacca: «In questi giorni nelle acque dell’Africa occidentale sono presenti solo sette pescherecci italiani. Tutti rispettano alla lettera gli obblighi previsti dalla licenze di pesca concesse dai Paesi litoranei all’Unione europea. Se vogliamo trovare un responsabile dello scempio che viene effettuato in quelle acque dobbiamo guardare a Oriente». Giannini si riferisce alle flotte di Cina, Taiwan, Corea del Sud e Vietnam. Sono i loro pescherecci a violare ogni norma e a devastare l’ecosistema. «I pescherecci orientali - aggiunge - non conoscono altra regola che il profitto. Sfruttano il mare senza alcun rispetto. Nei confronti di questi Paesi e delle loro flotte c’è troppa tolleranza. Anche se c’è da dire che spesso operano con la complicità dei politici locali i quali in cambio della costruzione gratuita di infrastrutture (spesso realizzate in modo approssimativo) concedono licenze che lasciano mano totalmente libera in mare».
Per pescare nelle acque non servono imbarcazioni particolarmente attrezzate. «Un peschereccio di 30 metri - spiega Giannini - è in grado di pescare nell’Oceano Atlantico. Non servono per forza pescherecci grandi. Certo se l’imbarcazione è piccola, ha meno autonomia e capacità di carico, ma questo non significa che non sia in grado di affrontare quelle acque. I nostri pescherecci operano soprattutto al largo della Mauritania e pescano cefalopodi (polpi, seppie, totani, calamari, ecc.) e gamberi. Sul nostro mercato è molto forte la domanda di questo tipo di pescato e le acque del Mediterraneo non sono più in grado di rispondere alle necessità del mercato».
Ma per un consumatore comune com’è possibile distinguere tra il pesce pescato nel rispetto delle regole e quello pescato in modo illegale? «La nostra organizzazione - conclude - si sta impegnando per creare una certificazione che sappia attestare non solo la provenienza del pescato, ma anche la sua qualità».
Intanto, grazie all’iniziativa di ambientalisti italiani e europei, nel 2006 è nato Amici del Mare, uno schema di certificazione di prodotti di pesca e acquacoltura. Ha sede a Milano e, in quattro anni, ha assegnato la certificazione a un centinaio di flotte da pesca e impianti di acquacoltura. Per ottenere la certificazione, le imprese devono essere ispezionate da un gruppo di esperti. Per la pesca viene verificato che le società di pesca non sfruttino eccessivamente la popolazione ittica; rispettino le misure minime del pescato; le dimensioni delle maglie delle reti e delle reti stesse siano corrette; siano rispettate le zone di pesca, le zone protette e il fondale marittimo. Per l’acquacoltura viene verificato l’impatto del sito produttivo sugli habitat; il rispetto della normativa sui parametri delle acque, la prevenzione delle fughe di pesce; la gestione dei rifiuti e l’impatto dei mangimi. Un primo passo verso prodotti più «etici».

© FCSF – Popoli