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Hispaniola, la frontiera «trafficata»
3 marzo 2011
Popoli.info pubblica di seguito un reportage dalla frontiera tra Haiti e la Repubblica dominicana, una testimonianza che squarcia un velo dei traffici leciti e non tra i due Paesi caraibici. Questo testo appare oggi anche sul sito della Misna che ha profondamente rinnovato nella grafica e nei contenuti il proprio spazio web per essere, ancora di più, un punto di riferimento per la stampa missionaria.

Sotto l’ombra di una magnolia, un soldato sbarra il passo a una donna sulla riva orientale del fiume che segna il confine tra Haiti e Repubblica Dominicana. “Ha chiesto 100 pesos, da mettersi in tasca, per lasciarmi passare. Ma io non ce li ho, se li avessi avuti sarei entrata, anziché stare qui a guardare”. Siamo a un centinaio di metri dal posto di confine tra Anse-à-Pitres e Pedernales, nella parte meridionale dell’isola di Hispaniola. Un po’ più a nord, due donne haitiane stanno facendo il percorso inverso. “Abbiamo dovuto camminare per diversi chilometri – spiega Marie,  accompagnata dalla figlia di quindici anni – però siamo riuscite ad attraversare la frontiera senza problemi, senza che i soldati ci chiedessero soldi o ci arrestassero per essere entrate illegalmente”.

Scene come queste si ripetono ogni giorno lungo i 366 chilometri di confine tra i due paesi. Una linea che corre da nord a sud e divide due mondi: da una parte la povertà di Haiti, dall’altra le spiagge tropicali dei depliant turistici. Il fenomeno della migrazione degli haitiani verso la confinante Repubblica Dominicana è annoso e complesso. Nonostante regolari denunce e rivendicazioni da parte di organizzazioni impegnate alla frontiera, manca ancora una legislazione che garantisca il rispetto dei diritti umani e regoli i flussi. Un limite che da un lato favorisce  l’immigrazione irregolare con i suoi lucrativi risvolti, dall’altro porta  a frequenti ondate di rimpatri coatti e poco rispettosi dei più elementari diritti delle persone. Dopo il terremoto del 12 gennaio 2010, che ha parzialmente devastato la capitale Port-au-Prince, i movimenti alla frontiera si sono amplificati, e così anche i loro lati oscuri.

Salta sempre di più agli occhi il traffico e la tratta dei bambini. Lo vedono aumentare con viva preoccupazione le associazioni per i diritti umani, mentre le autorità  incaricate di controllare la frontiera non hanno i mezzi per contrastarlo, chiudono un occhio o, peggio, sono coinvolte. Siamo a Ouanaminthe, estremo nord di Haiti. Una città anonima e priva di infrastrutture, come del resto lo è tutto il paese.

E questo nonostante la località sia punto d’incontro, due volte alla settimana, di decine di migliaia di commercianti che attraversano il confine per partecipare al mercato di Dajabón, dall’altra parte del fiume ‘Massacro’, nella Repubblica Dominicana. Attraverso quel fiume, soltanto qui nella zona settentrionale della frontiera, passano ogni settimana centinaia di bambini, la maggior parte vittime di trafficanti.

“In media, 150 bambini haitiani ritornano ogni settimana dalla Repubblica Dominicana, spesso da soli, perché sono stati abbandonati o in qualche modo intercettati dai servizi dell’immigrazione o dalla Brigata di protezione dei minori – riferisce Jean-Robert Dery, coordinatore del settore Migrazione e diritti umani di ‘Solidarietà frontaliera’,  un’organizzazione legata ai missionari gesuiti – Quanti siano tutti quelli che passano, non lo sappiamo. Potrebbero essere il doppio”.
La traversata clandestina si fa spesso a piedi, favorita dalla notte e dalla corruzione, nei numerosi punti non controllati della frontiera. Secondo alcune fonti locali, nel 2010 sono stati almeno 7000 i minori finiti nelle mani di trafficanti, contro circa 950 casi registrati nel 2009. “Il traffico dei bambini – continua Dery – è frutto di una rete haitiano-dominicana ben organizzata, che inventa ogni giorno nuove strategie per andare a buon fine. Nelle ultime settimane, con i controlli rafforzati a causa del colera, abbiamo notato un aumento di ‘false madri’, delle donne che si fanno passare per le mamme dei bambini e li fanno attraversare con sé”.

La casa delle missionarie di ‘San Juan Evangelista’, una congregazione religiosa colombiana, nella piazza centrale di Ouanaminthe, nelle settimane successive al terremoto si era trasformata in casa d’accoglienza per bambini smarriti. Orfani, persi, abbandonati, arrivavano a decine ogni settimana dall’area terremotata di Port-au-Prince, a centinaia di chilometri di distanza, con i pullman o qualsiasi altro mezzo di trasporto. Soli o in gruppo, chi un po’ per caso, chi per andare a cercare o raggiungere un parente nella Repubblica Dominicana. Altri caduti nelle mani di trafficanti senza scrupoli e interessati solo dalla possibilità di facili guadagni. “È la povertà ad accentuare questo genere di crimini” sottolineano Lisiane ed Edmonde, due operatrici del progetto di sostegno ai bambini vulnerabili realizzato insieme alle missionarie di ‘San Juan’. Le due donne riferiscono di aver fornito assistenza, tra aprile e dicembre, a circa 85 bambini vittime di traffico o di tratta.
Un numero molto parziale, che riguarda soltanto i bambini ‘salvati’ e si riferisce soltanto al posto di frontiera tra Ouanaminthe e Dajabón. Nelle mani dei trafficanti, i piccoli indifesi sono oggetto di maltrattamenti, forzati a camminare nella foresta, stanchi, picchiati. Sono traumatizzati e spesso finiscono con l’ammalarsi. Una volta arrivati nella Repubblica Dominicana, possono finire nelle strade di Santiago o Santo Domingo, sfruttati da sedicenti ‘parenti’ per mendicare, lavorare, riportare danaro a qualsiasi costo, anche quello della prostituzione. Voci parlano di traffico a fini di adozione, persino – anche se non abbiamo trovato conferme – di espianto di organi.

Non sono solo i minori a farsi trascinare, o in alcuni casi a rivolgersi ai trafficanti. Ben prima del terremoto esisteva già una rete illegale attorno al fenomeno migratorio. I ‘passeurs’, in francese,  o ‘buscones’, in spagnolo,  partono da ogni angolo di Haiti per condurre fino alla frontiera uomini e donne in cerca di un lavoro o di una vita migliore. A volte i ‘carichi’ sono commissionati da proprietari di piantagioni in cerca di manodopera a basso costo. I ‘passeurs’ guadagnano tra 2000 e 10.000 pesos per ogni spostamento, ma se vengono intercettati dalla polizia dominicana non vengono puniti, perché la legge non prevede il reato di sfruttamento dell’immigrazione. Pericoli e ostacoli sono riservati solo ai migranti. E negli ultimi anni si sono moltiplicate le denunce di rimpatri forzati di cittadini haitiani. Le organizzazioni sottolineano gli atteggiamenti contraddittori di chi monitora il confine: da un lato, si lascia passare, spesso intascando una tangente per aver chiuso un occhio, dall’altro, si espelle indiscriminatamente, a volte anche chi è provvisto di un regolare permesso di soggiorno.

Quella dell’emigrazione si è ormai trasformata quasi in una scelta obbligata per gli haitiani, perché nella loro parte d’isola c’è  ben poco oltre alla polvere da ingoiare. Manca l’accesso all’istruzione, all’acqua, alle cure sanitarie. È uno dei motivi per cui Linda, 27 anni, giovane mamma del piccolo Richard, è andata a partorire nella Repubblica Dominicana. “Qui all’ospedale di Anse-à-Pitres non c’è un reparto di ginecologia, ci sono due medici per tutta la zona. Così, se devi partorire sei costretta a farlo in casa, dove non c’è acqua e spesso è sporco: in caso di complicazioni chi interviene? Dall’altra parte del confine, almeno, abbiamo diritto a una minima assistenza medica gratuita”. Ha il viso cupo, Linda, mentre ci racconta la sua storia. Per essere nato in Repubblica Dominicana, suo figlio è apolide. Le autorità dominicane della zona non vogliono applicare la legge, in base alla quale chi nasce sul suolo dominicano è un cittadino dominicano. Allo stesso tempo non può nemmeno registrarlo ad Haiti, visto che non vi è nato. Privo di documenti, di assistenza sociale, di diritti, il futuro di Richard si preannuncia pieno di ostacoli. Sono tante le donne che, come Linda, fanno la spola ogni giorno per andare a lavorare oltre confine, spesso come domestiche. È difficile avere numeri precisi che inquadrino il fenomeno della migrazione a scopo lavorativo, regolare e non, ma gli abusi in constante aumento hanno spinto poche settimane fa il Ministero degli haitiani all’estero ad alzare la voce di fronte a alle “persecuzioni” e alla “stigmatizzazione” dei migranti haitiani da parte dei loro vicini.
Si chiama Codevi – Compagnie de developpement industriel, ma gli haitiani la chiamano all’americana, ‘la Factory’. Un grande capannone all’estremità di una  strada costruita apposta, perfettamente asfaltata – forse l’unica di Ouanaminthe – alle spalle del fiume ‘Massacre’. È un complesso industriale specializzato nel tessile, che in un primo tempo aveva portato molte speranze di lavoro e sviluppo nell’area. Ma con uno stipendio di circa 700 ‘gourdes’ – circa 18 dollari – alla settimana per 10 ore di lavoro al giorno, parlare di opportunità di “sviluppo” per la popolazione locale non è certo la parola più azzeccata. Forse sarebbe più appropriato parlare di economia del sottosviluppo. Sono tra 5000 e 6000 le persone, in particolare giovani donne, che lavorano nella ‘factory’ alla fabbricazione di capi tessili, come jeans Levis o Tommy Lee. Quello della Codevi è un progetto pilota che prevede la realizzazione di altre 13 zone franche lungo la frontiera con la Repubblica Dominicana. Promotori delle zone franche sono uomini d’affari, dominicani quali Fernando Capellan (presidente Grupo M e direttore dell’associazione dominicana zone franche), statunitensi o haitiani come il candidato alle presidenziali  Charles-Henri Baker o Andy Apaid .

“Si sta sviluppando una  strategia di trasferimento di tutta l’industria del subappalto tessile dalla Repubblica Dominicana verso Haiti perché tra quattro o cinque anni le esigenze dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc/Wto) impediranno alla Repubblica Dominicana di offrire le stesse condizioni di oggi agli investitori stranieri. I padroni vogliono trasferire il parco industriale verso Haiti per approfittare di stipendi che sono un terzo di quelli devono pagare agli operai dominicani” ci spiega l’economista Camille Chalmers, esponente della Piattaforma per uno sviluppo alternativo (Papda), rete di organizzazioni haitiane. “È un po’ questa la strategia globale ed è anche l’unico discorso che persone come Ban Ki-moon o Bill Clinton offrono ad Haiti: sostenere che le esternalizzazioni sono il motore della crescita economica” continua Chalmers, raccontando che la Papda ha lottato contro la costruzione della zona franca a Ouanaminthe, perché questa è una zona agricola che avrebbe un potenziale enorme per la produzione cerealicola. “Invece è stata sacrificata a beneficio di investitori statunitensi o dominicani – sostiene Chalmers – senza contare tutti i fattori ambientali, tra cui l’inquinamento causato dalle industrie tessili. La regione è attraversata da cinque importanti corsi d’acqua: se verranno inquinati, la popolazione non potrà più utilizzare questi fiumi per i propri bisogni”. Inoltre, il parco industriale attira in città molte persone che arrivano con la speranza di trovare un lavoro, con gravi conseguenze per l’urbanizzazione improvvisa e provocando al tempo stesso un aumento esponenziale della disoccupazione.

La volontà di fare di Haiti una “Taiwan dei Caraibi” era stata espressa già nel 1969 dall’allora presidente François Duvalier  allo statista statunitense Nelson Rockefeller, ricevuto nel palazzo presidenziale a Port-au-Prince. Da quel momento furono approvate una serie disposizioni per aprire il paese agli investimenti stranieri e furono costruiti due parchi industriali, uno privato e uno pubblico, che fecero di Haiti una base importante del subappalto e la resero, per esempio, il primo paese esportatore di palle da baseball verso gli Stati Uniti. Dal 1982 il settore tessile haitiano è entrato però in una fase di declino a causa dello sviluppo di una forte concorrenza da parte di altri paesi, dove gli stipendi erano uguali o addirittura inferiori a quelli della manodopera haitiana, ad esempio in Guatemala, Salvador o ancora alla  frontiera messicana. Fino ai primi anni del 2000, quando su iniziativa dell’Omc e della Banca mondiale si è pensato, con la sperimentazione della zona franca a Ouanaminthe, di dar nuova linfa al sistema industriale haitiano. Unasperimentazione che si è fondata però su salari che non bastano a garantire il sostentamento di una famiglia e sulla creazione di aspettative che spesso vengono disattese. “Lo stipendio era appena sufficiente a comprare da mangiare – dice Garline Etienne, che ha lavorato per tre anni alla Codevi – e cosa posso garantire ai miei figli? Come faccio a pagare almeno le tasse per poterli mandare a scuola? In fabbrica abbiamo organizzato uno sciopero per chiedere l’aumento dei salari: ci hanno licenziate tutte”.

La situazione economica e l’instabilità politica continuano a spingere gli haitiani a varcare quella sinuosa frontiera verso l’altra parte dell’isola. Un’unica isola per due mondi in cerca di convivenza.
Céline Camoin
Michele Vollaro
© FCSF – Popoli
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