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Il cantante e le speranze di Haiti
20 aprile 2011
Chi è Michel Martelly, il nuovo presidente di Haiti?
Michel Martelly, 50 anni, è un cantante popolare che non ha nemmeno una laurea. Ha avuto successo nella vita grazie alla musica (per cui ha venduto bene la sua immagine nel corso della campagna elettorale) ed è più conosciuto dalle masse popolari con il nome d’arte «Sweet Mickey». Parla la lingua della strada, bene quanto il francese. Non ha un passato politico ed è apparso al momento delle elezioni con il partito Repons Paysan. Nessuno immaginava che sarebbe diventato presidente, perché, per via dei suoi eccessi, durante la campagna elettorale era considerato un candidato volgare e immorale. D’altro canto sa sintonizzarsi bene con la maggioranza della popolazione, ha quali sono i loro problemi, cosa che il governo di Préval non aveva saputo fare.

Dopo la vittoria di Martelly la sua sfidante Mirlande Manigat ha denunciato irregolarità. C’è il rischio che la situazione si aggravi al punto di arrivare a uno scontro tra le due fazioni politiche?
Certo, Manigat ha denunciato irregolarità nelle elezioni, tuttavia non ha contestato apertamente il risultato a favore del suo rivale Martelly. Non c’è dubbio che sia lui il grande vincitore. Non c’è alcun rischio di scontro tra le fazioni politiche, perché Martelly resta il candidato più popolare. Ad Haiti la popolazione vota più in favore di una persona che di un partito, perché i partiti fanno la loro apparizione solo al momento delle elezioni, ma senza una reale proposta politica o un’alternativa per il popolo. In assenza di programmi seri e convincenti è la persona che sa vendersi meglio alla massa a vincere le elezioni.

Martelly ha promesso di ricostruire Port-au-Prince. È davvero l’uomo più indicato per questo difficile compito?
Martelly è stato eletto grazie al voto dei giovani e dei cittadini più poveri, che costituiscono la maggioranza della popolazione e sono coloro che più aspirano a un cambiamento. Nei suoi discorsi ha promesso un modo diverso di gestire lo Stato, la costruzione di migliaia di abitazioni per le vittime del terremoto, l’educazione gratuita per tutti, la creazione di posti di lavoro, lo sviluppo del turismo e la decentralizzazione. Sono temi che hanno affascinato molti elettori. D’altro canto i problemi da risolvere richiederebbero un leader forte, con una profonda conoscenza di come funziona uno Stato. Ma si sa che Martelly non è un politico, e il suo partito, che non ha alcuna esperienza, ha solo tre deputati: questo riduce le possibilità di imporre il suo programma politico. Inoltre attorno a lui ci sono alcuni vecchi sostenitori di Duvalier (l’ex dittatore haitiano n.d.r.) e anche alcuni membri delle élite, che non lo aiuteranno a realizzare il cambiamento promesso.
Il popolo haitiano però non è troppo esigente: se mostrerà buona volontà e riuscirà a fare il minimo questo basterà a tranquillizzare la popolazione. In caso contrario, probabilmente tra un anno quelli che l’hanno votato scenderanno in piazza assieme ai suoi oppositori per manifestare contro di lui, e difficilmente sarà in grado di fronteggiare una simile situazione.
 
In un recente documento del Cran (Cellula di riflessione e azione nazionale). I gesuiti e altri esponenti della società civile hanno denunciato «ingerenze intollerabili della comunità internazionale negli affari interni di Haiti». Può spiegarci i motivi di una simile accusa?
Dopo il ritorno dell’ex presidente Jean-Bertrand Aristide dal suo primo esilio, nel 1994, abbiamo avuto nel Paese la presenza di una forza armata dell’Onu, che dal 2004 si chiama Missione delle Nazioni unite per la stabilizzazione di Haiti (Minustah). Si tratta di un esercito di 100mila unità che da 15 anni è presente sul nostro territorio senza che il Paese sia in guerra. Salvo rari casi (le sommosse per la carestia nel 2008, o dopo le elezioni dello scorso 28 novembre), quest’armata non ha mai offerto un aiuto concreto alla popolazione. Se la Minustah volesse davvero aiutare Haiti dovrebbe lavorare per formare un nuovo esercito nazionale, ma non lo fa. Il comandante in capo della Minustah, inoltre, parla spesso come se fosse lui il presidente del Paese.
Per questo l’esercito Onu appare a molti haitiani come una forza d’occupazione. Inoltre la Minustah costa ogni anno centinaia di milioni di dollari, e buona parte dei soldati va ogni fine settimana a spendere lo stipendio in Repubblica Dominicana, senza profitti per la nostra economia. Dal momento che il problema più grande di Haiti non è di tipo militare, ma piuttosto alimentare ed economico, ci chiediamo quanti anni questi militari dovranno restare ad Haiti?
La cosa peggiore, però, è è stato dimostrato che sono stati gli agenti nepalesi della Minustah a portare ad Haiti il virus del colera, che ha ucciso migliaia di cittadini. Le vittime non hanno ricevuto nessuna scusa e tanto meno risarcimenti.
Allo stesso tempo, dopo il terremoto del 12 gennaio 2010, gli haitiani hanno beneficiato della solidarietà della comunità internazionale, che ha dato una risposta immediata. Senza questi aiuti la situazione del Paese sarebbe stata catastrofica. Bisogna però riconoscere anche i limiti di tale aiuto. Le decisioni importanti per il Paese sono prese dalle Ong internazionali, senza tenere conto del parere delle Ong locali. Inoltre la Commissione provvisoria per la ricostruzione di Haiti (CirH) controlla tutti gli aiuti della comunità internazionale e la gestione dei fondi è affidata alla Banca interamericana per lo sviluppo.
C’è una perdita reale della sovranità nazionale, la comunità internazionale non sembra intenzionata a cedere il controllo e il governo haitiano diventa di giorno in giorno più fragile per l’intervento costante di enti stranieri negli affari interni del Paese.

Che ruolo hanno (o vorrebbero avere) la Compagnia di Gesù e, in generale, la società civile nella ricostruzione di Haiti?
Subito dopo il terremoto, il Servizio gesuita per i rifugiati di Haiti (Jrs-Haiti), ha scelto di lavorare in 7 campi di Port-au-Prince, con più di 20mila persone. Nel corso del primo anno, abbiamo concentrato il nostro lavoro sulla ricostruzione della persona, attraverso un progetto psicosociale e pastorale. Ora il Jrs Haiti sta avviando un progetto di educazione mobile in situazioni d’urgenza, per rispondere meglio al grave problema dei bambini nei campi che non possono andare a scuola
Poi, attraverso la rete di educazione popolare Fede e Gioia, la Compagnia vorrebbe offrire un nuovo modello di educazione, formando cittadini che siano impegnati nella loro comunità e per lo sviluppo del Paese. Si tratta di un’educazione di qualità al fine di migliorare la società, così che i valori della dottrina sociale della Chiesa, come la solidarietà, il rispetto e la difesa della dignità umana siano prese in considerazione per la formazione del cittadino. Il miglior sevizio che il Jrs Haiti può rendere al Paese è aiutare i giovani a conoscere il valore della loro cultura ed essere aperti ai valori positivi delle culture straniere.
Oltre all’istruzione però vogliamo lavorare nell’immediato per costruire case per le migliaia di persone che vivono nelle tende. Il più grave è che la popolazione vuole restare a Port-au-Prince o nei dintorni, ma lo Stato non vuole mettere terreni a disposizione della gente per costruire case.  La mancanza di case c’era già, ma si è aggravato dopo il sisma. Infatti gli aiuti umanitari si sono concentrati a Port-au-Prince e molte persone si sono trasferite dalla campagna alla capitale per poterne usufruire.

Un problema poco conosciuto in Italia è il rimpatrio forzato dei profughi haitiani da parte di Stati Uniti e Repubblica Dominicana. Può dirci qualcosa in proposito?
Già prima del sisma Haiti aveva una forte emigrazione, dovuta non solo alla povertà ma anche  alla mancanza dei servizi di base. I più poveri vanno negli Stati più vicini, in particolare in Repubblica Dominicana, quelli che vivono in migliori condizioni cercano di arrivare negli Stati Uniti. Dopo il terremoto sia Repubblica Dominicana che Usa hanno mostrato solidarietà e comprensione, non rifiutando i migranti haitiani. In seguito all’epidemia di colera, però, la Repubblica Dominicana ha irrigidito la sua politica migratoria e iniziato ad espellere gli haitiani dal suo territorio. Parallelamente anche gli Usa, per altri motivi, hanno ricominciato a riportare gli haitiani nel Paese d’origine. Molti di loro sono emigrati durante l’adolescenza, che tornano dopo essere diventati delinquenti nelle gangs americane.
Dopo il sisma c’è stata anche una crescita dell’emigrazione verso i Paesi sudamericani. Normalmente si tratta di migranti ingannati da trafficanti che fanno false promesse di trovare lavoro e, soprattutto, di giovani che cercano di entrare all’università. Infatti dopo il terremoto la mancanza di atenei si è aggravata, perché molte infrastrutture sono state distrutte e la ricostruzione delle università non è una priorità. La ricerca di un’istruzione di qualità è quindi una delle prime cause di emigrazione, ma spesso i giovani che erano partiti per questo motivo entrano nel giro della criminalità. È una situazione in cui dovrebbe intervenire la comunità internazionale, per offrire un migliore trattamento ai migranti e per risolvere alla radice il problema dell’emigrazione da Haiti.
Michele Ambrosini
© FCSF – Popoli
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