Home page
Webmagazine internazionale dei gesuiti
Cerca negli archivi
La rivista
 
 
 
Pubblicità
Iniziative
Siti amici
Primo piano
Cerca in Primo Piano
 
Il generale e Sarajevo: intervista a Jovan Divjak
2 aprile 2012
Per i cittadini di Sarajevo Jovan Divjak è un simbolo. Non solo perché fu il comandante militare della difesa della città durante l’assedio ma, forse soprattutto, perché lo fece rischiando in prima persona: disobbedendo ai propri capi e alla linea politica della sua nazione di nascita (è di origine serba). Da 18 anni è il presidente dell’associazione «Obrazovanje gradi Bih» («L’istruzione costruisce la Bosnia-Erzegovina») che si occupa di aiutare bambini e ragazzi orfani di guerra, offrendo borse di studio e seguendoli nel percorso scolastico. Lo abbiamo incontrato nella sede dell’associazione, a pochi passi da casa sua, nella zona est di Sarajevo, per parlare del passato e dell’attualità della Bosnia a vent’anni dall’inizio dell’assedio, il 5 aprile 1992.

Per quale ragione nel 1992 scelse di schierarsi contro quello che era il suo Paese di nascita?
Ancora oggi molti non lo capiscono. Si chiedono: Divjak è serbo, è nato a Belgrado, perché ha difeso i musulmani? La risposta è molto semplice. Io ho scelto di schierarmi con i più deboli, con chi non aveva armi e, soprattutto, con i cittadini che difendevano la mia stessa idea su quello che doveva essere la Bosnia Erzegovina, cioè un Paese tollerante e multiculturale. Non ho mai avuto dubbi sulla scelta da fare.

Quello di Sarajevo fu il più lungo assedio militare della storia moderna. Per 44 mesi, precisamente fino al 29 febbraio 1996, l’esercito jugoslavo, ritenuto all’epoca il terzo più potente d’Europa, cercò di entrare in città senza riuscirvi. Come fece Sarajevo a resistere?
Ci furono diverse ragioni che resero possibile la vittoria della nostra resistenza. Innanzitutto a Belgrado sottovalutarono le capacità difensive della città. Diedero per scontato che tutti i serbi residenti a Sarajevo, all’epoca il 33% del totale, avrebbero abbandonato la città. Ma questo avvenne solo in piccola parte e moltissimi serbi si unirono alla resistenza. In secondo luogo furono vittime della presunzione del capo dell’esercito serbo-bosniaco, Radovan Karadžić, il quale dichiarò che in una settimana avrebbe conquistato Sarajevo e in un mese tutta la Bosnia. Per questo all’assedio vennero destinati una quantità di uomini e mezzi insufficienti. Questi sono i motivi tecnici, però ve ne furono anche altri, altrettanto determinanti.

Quali?
La verità è che Sarajevo si salvò innanzitutto moralmente. Perché chi è moralmente determinato a difendersi è più forte di chi attacca. Gli abitanti si misero a difesa non solo della propria città, ma di un’idea di convivenza che a Sarajevo si respirava da sempre.
Per anni i nazionalisti cercarono di convincere gli jugoslavi che la convivenza tra le varie nazionalità era impossibile, che era necessario separarsi. In molte zone, specie quelle rurali, queste idee attecchirono, ma a Sarajevo no. Nella coscienza dei sarajevesi era assurda un’idea del genere. È incredibile pensare alla forza che i cittadini mostrarono durante l’assedio, e più di tutti questa forza la mostrarono le donne. Non è retorica, sono veramente convinto che furono soprattutto le donne a salvare Sarajevo. Mentre i mariti e i figli erano al fronte, le donne continuavano a mandare avanti la casa e tutta la società. Le donne custodirono la voglia di vivere di questa città.

Il resto del mondo invece non fece niente per aiutare Sarajevo, né per fermare il conflitto in Jugoslavia...
Questo è un altro dato di fatto: l’Europa e la Nato non fecero niente per impedire i massacri. È difficile capirne fino in fondo le ragioni, che sono sicuramente tante. Per questo mi limito a dire che di sicuro l’Europa e il mondo erano in un momento in cui avevano altri «appuntamenti» con la storia. Il muro di Berlino era caduto da pochi anni, c’era la crisi in Urss e quella con l’Iraq era appena terminata, avvenimenti che relegarono la questione jugoslava al livello di una crisi regionale.

A vent’anni da quei giorni ha saputo darsi una spiegazione sui motivi che portarono tanti jugoslavi a credere nelle idee nazionaliste, nonostante avessero convissuto pacificamente con i popoli delle altre repubbliche per buona parte del Novecento?
Le vicende jugoslave hanno dimostrato che, specie nei momenti di crisi, le idee nazionaliste sono più forti dell’idea di unità. Anche nella Jugoslavia di Tito i nazionalismi, specie quello croato e quello serbo, esistevano, sebbene minoritari. Probabilmente vennero tragicamente sottovalutati. Si pensava fossero solo rigurgiti di fenomeni sconfitti per sempre, insieme al nazismo e al fascismo, ai tempi della guerra partigiana. Invece durante la crisi degli anni Ottanta si sono rafforzati sino a prendere il potere in tutte le repubbliche alle prime elezioni libere del 1990.

Passando all’attualità, come vede la Bosnia di oggi?
Sinceramente, la situazione non è buona. Molti pensavano che, dopo gli accordi di pace siglati a Dayton nel 1995, le cose sarebbero rapidamente migliorate. Anche io ero tra gli ottimisti, ma avevo torto. La Bosnia è stata divisa in due entità territoriali (la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Srpska, la prima nelle zone croate e musulmane, la seconda in quelle serbe, ndr) e in dieci cantoni. Di fatto, ora abbiamo un parlamento centrale che è tenuto in scacco dai veti incrociati dei nazionalisti delle due entità e in ognuno dei dieci cantoni vige un diverso sistema sanitario e un diverso sistema di istruzione. Questo è assurdo e blocca lo sviluppo del Paese.

Con la sua associazione si occupa principalmente di istruzione; qual è la situazione in questo campo?
Quello dell’istruzione è uno dei campi che risente maggiormente delle divisioni. Di fatto non esiste un sistema scolastico unico, non esistono scuole miste. I serbi studiano con i serbi, i croati con i croati, i musulmani con i musulmani. Un sistema assurdo, come dimostra quanto successo a una ragazza di origine serba di Sarajevo che ha ottenuto una borsa di studio dalla nostra associazione. Ha scelto di iscriversi all’Università di Sarajevo, a differenza di quasi tutti gli altri serbi che si iscrivono a Banja Luka o a Belgrado per non studiare insieme ai musulmani. Bene, da quando ha iniziato a frequentare ha problemi sia all’interno dell’università, dove alcuni studenti non la vogliono, sia con i suoi stessi connazionali, che le rinfacciano di studiare con i «nemici».

In Europa ha fatto positivamente notizia la riattivazione della linea ferroviaria Sarajevo-Belgrado, rimasta inutilizzata dal dopoguerra: un piccolo segnale di speranza?
Purtroppo devo contraddirla: questo è un altro esempio di come le cose vanno qui, cioè male. Sa come funziona quella linea? Ci sono tre scompartimenti, uno della Federazione croato-musulmana, uno della Repubblica serba di Bosnia e l’altro della Serbia, ognuno con la propria biglietteria e il proprio personale. A ogni frontiera cambia sia il locomotore sia il macchinista. Così, per unire Sarajevo e Belgrado il treno impiega il doppio del tempo rispetto a quanto ne serviva vent’anni fa. È ridicolo.

Come immagina il futuro della Bosnia?
Ci sono infinite possibilità, in molti iniziano a chiedere di rivedere l’organizzazione del Paese stabilita dagli accordi di pace; un’altra possibile via di uscita potrebbe essere l’ingresso nell’Unione europea, ma è una possibilità ancora molto remota, visto che la Bosnia non è ancora in grado di soddisfare nemmeno uno degli standard richiesti da Bruxelles.
Andrea Legni
(foto Irfan Rezdovic)
© FCSF – Popoli
Tags
Aree tematiche
Aree geografiche