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Bosnia-Erzegovina: ancora poca acqua sotto il ponte
22 ottobre 2013

Il 9 novembre di vent’anni fa, a Mostar crollava sotto 60 colpi di mortaio il simbolo di una storia fatta di incroci, scambi e contaminazioni. Dopo la guerra il ponte è stato ricostruito, ma il Paese balcanico è ancora in cerca di una vera riconciliazione. Il nostro reportage.

 

Emir respira a fondo, si bagna i capelli e sparge un po’ di acqua sulla muta. Il suo amico Hedin passa con un cappello a raccogliere qualche spicciolo dai passanti e dai turisti che si sono radunati sul ponte attorno a lui. È un «Icaro di Mostar», come vengono soprannominati i giovani impavidi che si tuffano nelle acque gelide della Neretva, badando bene di piegare indietro le gambe per rallentare la velocità e di distenderle nuovamente prima dell’impatto con l’acqua. Di lì a qualche minuto toccherà a lui. Un salto di 23 metri, ma soprattutto un modo nuovo di vivere quel ponte, lo Stari Most, un maestoso arco di pietra che si appoggia su due torri medievali, ribattezzato «luna pietrificata» per il colore chiaro della pietra locale, la tenelija, che riflette le luci del tramonto e di notte quelle dei lampioni.

Il ponte fu voluto da Solimano il Magnifico nel 1557 e realizzato in circa dieci anni dall’architetto Sinan. È rimasto in piedi fino alla mattina del 9 novembre 1993, quando venne distrutto dall’artiglieria croato-bosniaca nel corso della guerra che ha insanguinato il Paese tra il 1992 e il 1996. Ci vollero più di 60 colpi di mortaio per farlo crollare. Un portavoce delle forze croate affermò che il ponte era stato distrutto perché di importanza strategica. Il valore strategico, in realtà, era di poco conto. Si è trattato di un atto per «uccidere la memoria», come lo definisce lo storico statunitense Andras Riedlmayer: la distruzione deliberata di un patrimonio culturale comune e la cancellazione di secoli di convivenza pacifica.

Mostar significa proprio «custode del ponte». La città, dunque, non poteva rimanerne senza. E così, terminata la guerra, sono iniziati i progetti per la ricostruzione: oltre mille pietre sono state lavorate secondo le tecniche medievali e il 22 luglio 2004 lo Stari Most è stato riaperto, brindando alla riconciliazione fra le comunità cristiane e musulmane dopo gli orrori del conflitto.

Rancore e diffidenza, però, restano evidenti. Il ponte unisce (o divide?) la zona musulmana, attraversata dalla vivace Kujundžiluk, la «via d’oro» affollata di negozi di artigianato, da quella croata a maggioranza cattolica. Tuttavia Nedim, un interprete, non è d’accordo: «Si insiste a chiamare “zona ottomana” quella che da altre parti si chiama semplicemente “centro storico”. È fuorviante, è una forma di propaganda». Certo è che a Mostar, e non solo, le relazioni tra le comunità sono ridotte al minimo, quando non sfociano addirittura in tensioni. E quel colpo al cuore della città ha lasciato il segno. Infatti quando, durante la guerra, i contendenti hanno capito che non sarebbero riusciti a riportare una vittoria in breve tempo, hanno deciso di minare i luoghi simbolo della cultura: a Mostar il ponte vecchio, a Sarajevo, tra gli altri, la Biblioteca nazionale, colpita dalle granate dei serbo-bosniaci nel 1992 (solo un decimo dei libri conservati fu salvato dalle fiamme), e la sede del quotidiano Oslobodenje (Liberazione).

Quando il giornale fu fondato, durante la seconda guerra mondiale, la liberazione era quella partigiana dall’occupazione tedesca della Jugoslavia. Mai nome fu più profetico: durante l’assedio della città, lo staff, formato da una settantina di giornalisti bosniaci, serbi e croati, ha continuato a documentare la guerra da una redazione sotterranea, allestita in un rifugio anti-bombardamento, ed è riuscita a pubblicare un’edizione quotidiana, saltando solo un giorno.

L’assedio di Sarajevo, durato quasi quattro anni (dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996), è stato il più lungo della storia moderna. Serbi e bosniaci ancora oggi non si mettono d’accordo sulla scintilla che gli diede l’avvio: per i primi l’uccisione di un serbo, Nikola Gardovic, durante il corteo nuziale del figlio; per i bosniaci quella di due donne, Suada Dilberovic, studentessa bosniaca, e Olga Sucic, funzionaria parlamentare croata, nel corso di una grande manifestazione per la pace. Il ponte Vrbanj, sul quale vennero colpite a morte da un cecchino, oggi porta il loro nome.

A quelle morti ne seguirono moltissime altre: le vittime tra i civili in città furono oltre 11mila, di cui 1.600 bambini. La via Zmaja od Bosne, che dalla città conduce all’aeroporto, fu tristemente ribattezzata «viale dei cecchini», perché dall’alto si sparava sulla gente. «Era diventato pericoloso anche fare le cose più semplici e quotidiane, come attraversare una strada o fare il bucato nel fiume», racconta Vedran Jusufbegovic, fisioterapista, che aveva vent’anni quando la guerra è cominciata. «Hanno sparato persino durante il funerale di mia nonna. Al cimitero sono accorsi parenti in abiti musulmani. Li hanno presi di mira. A nulla è valsa la presenza di un sacerdote, né la sacralità del luogo e della cerimonia».

Nessuno immaginava che la popolazione avrebbe resistito così a lungo a difesa della città. Senza divisa, con armi improvvisate, almeno all’inizio. Se è successo è stato anche grazie al «tunnel della salvezza», un corridoio di 800 metri scavato in quattro mesi e quattro giorni, per la maggior parte sotto l’aeroporto perché sotto il controllo dell’Onu. Era la principale via di rifornimento e di fuga verso la zona del monte Igman, non ancora caduta in mano all’esercito serbo. Ma anche il canale attraverso il quale passava la voglia di evasione, racchiusa in un pacchetto di sigarette o in una videocassetta. E non si può capire quanto siano preziose queste cose quando attorno c’è solo orrore.

Sarajevo è da sempre un crocevia di popoli e di commerci, uno snodo importante di traffici tra Oriente e Occidente, una culla di civiltà. Terra di ospitalità fin dai tempi delle rotte carovaniere, quando nei caravanserragli i viandanti potevano soggiornare per tre giorni e tre notti gratuitamente. Emblema di tolleranza religiosa, tanto da conquistarsi il nome di «Gerusalemme d’Europa» (coniato da Giovanni Paolo II), perché nello spazio di un centinaio di metri sorgono la moschea, la sinagoga, la cattedrale cattolica e la chiesa ortodossa. «Durante l’assedio si ascoltava musica serba - rivela Vedran senza esitazione -. Perché no? Erano canzoni d’amore».

A livello urbanistico si possono «leggere» le diverse epoche storiche negli edifici cittadini, perché chi è venuto dopo ha rispettato le architetture preesistenti e si è posto in una logica di continuità: entrando a Sarajevo dalla Serbia si percorrono, lungo un asse spaziale che è al tempo stesso cronologico, il periodo ottomano, quello asburgico e quello socialista. E allora cosa si è rotto in quell’equilibrio? Mauro Montalbetti, presidente di Ipsia, Ong promossa dalle Acli, incontrato in occasione della presentazione del libro di Stefano Tallia, Una volta era un Paese. La ex-Jugoslavia vista dalle scuole (Scribacchini Editore), suggerisce di guardare ai Balcani come alla metafora della nostra storia contemporanea: dal riemergere dei nazionalismi all’esaltazione del sangue e delle piccole patrie, all’incapacità di trovare una risposta diversa dalla guerra alla sfida della coesistenza di più etnie e religioni sullo stesso territorio. «I Balcani - spiega Montalbetti - diventano quasi il paradigma di ciò che può accadere ovunque e in qualsiasi momento, a testimonianza che ogni comunità può disgregarsi. La crisi economica e politica che li ha investiti all’inizio degli anni Novanta si è trasformata in qualcosa di impensabile e di imprevedibile, la convivenza plurale e il multiculturalismo sono diventati all’improvviso impraticabili, il frutto della modernità si è tradotto in un’onda di violenza collettiva senza precedenti».

Si è consumata una tragedia di cui resta traccia non solo nei palazzi sventrati, nei cimiteri gremiti di vittime della guerra, nelle «rose di Sarajevo», cicatrici simboliche di resina rossa nei punti in cui sono esplose le granate, e nelle targhe commemorative al mercato di Markale, teatro di due terribili massacri. Ma anche nella quotidianità fatta di divisioni. Esistono ancora oggi scuole separate per etnia, programmi di studio differenziati, insegnamenti nelle diverse varianti linguistiche diffuse nella regione. «A più di vent’anni di distanza - ammette Vedran -, i rapporti tra serbi e bosniaci sono dettati da ragioni di convenienza economica o sono di natura culturale. C’è una tolleranza che si può definire umana, ma lontana da una sincera collaborazione».

Per fortuna, i tentativi di superare le barriere non mancano. Non occorre fissare lo sguardo sempre e solo sulle macerie. C’è una generazione che non ha vissuto la guerra eppure ne sente il peso: «Non vogliamo essere ricordati solo per dieci anni di follia, abbiamo una storia millenaria», afferma Maya, una studentessa bosniaca.
E allora si cercano strade per trovare un cammino comune e costruire relazioni nuove. Ad esempio, attraverso il cibo. Con un progetto di promozione dello sviluppo locale ecosostenibile nelle valli dei fiumi Drina, Neretva e Sava, Oxfam Italia tutela le produzioni tipiche della Bosnia-Erzegovina: miele, formaggio e vino. Lavora con i produttori locali e appoggia le piccole e medie imprese per favorire il dialogo tra le comunità e rafforzare il processo di ricostruzione nella regione e in tutto il Paese. È un’idea per mettere insieme persone che si sono fatte la guerra. Marko, un contadino serbo-bosniaco, vende il formaggio nel sacco, uno dei prodotti più originali della cucina della Bosnia-Erzegovina, a cattolici e musulmani. Non è solo buono da mangiare, è strategico per riattivare la comunicazione nel Paese.

Anche lo sport è un mezzo di riconciliazione, in accordo con lo spirito olimpico che rese celebre Sarajevo nell’inverno del 1984. Infatti sono diversi gli atleti serbi o serbo-bosniaci, in particolare calciatori, che giocano in squadre bosniache della massima serie, come Sarajevo o Zeljo. Nelle scuole si tentano esperimenti di interscambio culturale: studenti musulmani e cattolici frequentano classi rigorosamente separate, ma nel cortile comune possono incontrarsi e giocare insieme. Forse non ha senso cercare un senso per ciò che è stato. E ha ragione Stefano Tallia quando, rivisitando Ivo Andric, scrive: «I Balcani, e non solo la Bosnia, iniziano dove finisce la logica».

Elisabetta Gatto

© FCSF – Popoli