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L’odissea degli uiguri di Guantánamo
21 ottobre 2010

Erano 22 gli uiguri finiti nelle gabbie del carcere speciale di Guantanamo Bay sull’isola di Cuba. Nel 2002 si trovavano in Afghanistan (che confina con la provincia cinese dell’Uighur-Xinjiang, da dove provengono) quando vennero catturati dalle truppe Usa impegnate nella risposta agli attacchi dell’11 settembre. Non avevano nulla a che fare con gli attentati, eppure hanno trascorso diversi anni di detenzione prima di essere rilasciati (non tutti).

Nel 2006, sei uiguri sono stati mandati in Albania. Tre anni dopo, l’isola di Palau, ex colonia Usa nel Pacifico, ne ha accolti altri sei, mentre quattro sono arrivati a Bermuda. Cinque restano imprigionati: hanno dai 32 ai 36 anni di età. Nessuno è tornato in Cina, dove rischiano di essere perseguitati con accuse di attività sovversiva. Così gli Usa hanno cercato un Paese terzo disposto ad accoglierli.

Gli uiguri, che parlano una lingua del ceppo turco, sono la principale minoranza musulmana dalla Cina e vivono una situazione di tensione con la maggioranza cinese e il governo di Pechino (leggi negli approfondimenti l’articolo pubblicato su Popoli nel 2009). Nelle scorse settimane i quattro uiguri che vivono a Bermuda, possedimento britannico nell’Atlantico, hanno ricevuto la visita di alcuni membri di Witness against Torture (Wat). Questa associazione fondata nel 2005 da attivisti cristiani per i diritti umani, ha voluto conoscere gli ex detenuti per stabilire un rapporto personale e avere indicazioni su come proseguire nell’azione di lobbying per la liberazione di chi è ancora detenuto. Wat si è battuta a lungo per il rilascio degli uiguri e, in generale, per la chiusura della base-prigione. Come cittadini statunitensi, i suoi membri intendono anche assumersi almeno in parte la responsabilità del loro Paese per le guerre e le politiche di detenzione condotte negli ultimi anni, costruendo una relazione positiva con persone che in patria sono chiamate «nemici».

Luke Hansen è un giovane gesuita di Chicago, tra i membri dell’associazione che si sono recati a Bermuda: «Gli uomini ci hanno raccontato le sofferenze e l’oscurità che hanno comportato in questi anni la detenzione, la separazione dalla famiglia, l’impossibilità di viaggiare e il sapere che cinque amici non sono ancora liberi». Solo nell’ottobre 2008 il governo Usa ha riconosciuto che questi uomini non erano «nemici combattenti» e ha concesso il rilascio. Per sette anni hanno atteso senza sapere se e quando sarebbero stati rilasciati. Luke, nella sua formazione di gesuita, ha approfondito il tema della giustizia nella lotta al terrorismo e in particolare quale dovrebbe essere una risposta cattolica alle politiche di detenzione indefinita, attuata anche in assenza di accuse specifiche.

La definizione di «nemico combattente illegittimo», utilizzata per classificare tutti i sospettati di terrorismo dall’amministrazione Bush, e mantenuta da Obama, ha privato gli accusati di diritti fondamentali, come avere un processo in tempi ragionevoli. Per questo Wat cerca di dare una risposta concreta al problema, offrendo ascolto alle vittime, creando legami umani e lottando in maniera nonviolenta per i diritti civili. I suoi attivisti hanno iniziato con una visita a Guantánamo, organizzato veglie di preghiera davanti alla Casa Bianca, promosso digiuni e svolto lobby con membri del Congresso. Sulla stessa linea si sono espressi i vescovi Usa dopo lo scandalo degli abusi nella prigione di Abu Ghraib, in Iraq. Negli Usa il dibattito pubblico su questi temi è condotto da politici e militari, mentre manca la voce dei diretti interessati. Con la visita a Bermuda, i membri dell’associazione hanno ascoltato direttamente gli ex prigionieri che non possono tornare a casa.

© FCSF – Popoli