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Stati Uniti, Guantánamo per sempre?
15 gennaio 2013

Chiudere il penitenziario in cui sono detenuti i sospetti terroristi catturati dagli Usa: fu la prima promessa del neoeletto Obama. Nei giorni in cui inizia il secondo mandato, vi spieghiamo come mai la prigione più famosa del mondo è ancora aperta e perché rischia di diventare un simbolo permanente dell’America.

Il 20 gennaio 2009 Barack Obama iniziò la sua presidenza in modo coraggioso. Nel suo discorso di insediamento dichiarò: «Noi rifiutiamo in quanto falsa la scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali». Nel secondo giorno del suo mandato, diede seguito all’impegno firmando un decreto per chiudere Guantánamo entro un anno.
L’amministrazione di George W. Bush aveva avuto un approccio diverso alla lotta al terrorismo. In un’intervista rilasciata cinque giorni dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, il vicepresidente Dick Cheney disse che gli Stati Uniti avrebbero dovuto usare «il lato oscuro» nell’impegno contro il terrorismo. «Sta diventanto vitale per noi - spiegò - utilizzare tutti i mezzi a nostra disposizione per raggiungere l’obiettivo».
Questi «mezzi» non includevano solo la tortura, ma anche l’arresto e la detenzione di persone sospettate di terrorismo in una località «offshore», fuori dalla giurisdizione dei tribunali civili statunitensi o di qualunque altro Stato. Soprattutto tra il 2002 e il 2004, gli Usa trasferirono quasi 800 uomini, tutti musulmani, nella base navale di Guantánamo, a Cuba, per detenzioni illimitate, senza la formalizzazione di alcuna accusa e senza processi. Barack Obama decise di cambiare linea.
Nel tentativo di svuotare la prigione, Greg Craig, consulente giuridico della Casa Bianca, elaborò un primo programma per trasferire alcuni detenuti uiguri (etnia turcofona e minoranza islamica che vive nel nord-ovest della Cina), da tempo sollevati dalle accuse, sul territorio Usa. Craig presentò il programma il 17 aprile 2009 durante una riunione sulla sicurezza nazionale. Erano presenti il Segretario alla Difesa, Robert Gates, e il Segretario di Stato Hillary Clinton. «Sembrava sarebbe stata una questione di giorni, non settimane», perché si realizzasse il trasferimento, spiegò in seguito Time magazine. L’amministrazione sperava che, se fosse andato tutto bene, i Paesi terzi sarebbero stati più disponibili ad aiutare a ricollocare altri detenuti. Nel giro di un mese il programma andò a monte.
Quattro anni dopo, Guantánamo  resta aperta, continua la carcerazione preventiva a tempo indeterminato e i prigionieri
vengono processati da commissioni militari, non da tribunali federali civili. Ora non è chiaro se il carcere sarà mai chiuso, almeno finché l’ultimo dei detenuti non sarà diventato vecchio e morirà. Che cosa ha determinato una tale inversione di rotta?

OPPOSIZIONE CRESCENTE
Proprio il giorno prima che Craig presentasse il suo programma alla squadra per la sicurezza nazionale, il presidente Obama aveva reso pubbliche una serie di informative riservate della Cia che elencavano nel dettaglio le «intense tecniche di interrogatorio» (cioè torture) autorizzate dal-
l’amministrazione Bush. Michael Hayden, ex direttore della Cia, aveva organizzato un’opposizione interna alla pubblicazione di questi documenti, ma Obama - coerente con la sua promessa di una maggiore trasparenza e di una via diversa, maggiormente guidata da criteri etici, nella lotta contro il terrorismo - li aveva pubblicati lo stesso.
Nel frattempo fu reso noto anche il piano di Craig per il rilascio degli uiguri sul territorio statunitense e i leader repubblicani scatenarono uno spietato attacco, durato tre settimane, contro le prime decisioni del presidente Obama in politica estera. Affermavano che, diffondendo le note della Cia, Obama aveva incoraggiato i nemici dell’America e che ora avrebbe messo in pericolo i cittadini portando i prigionieri negli Stati Uniti, non importa se per liberarli, tenerli in carcere o processarli.
Improvvisamente stava diventando troppo costoso, politicamente, intraprendere la via «etica» nella lotta al terrorismo. Come scrisse ancora il Time alla fine di aprile 2009, «i sondaggi dei democratici indicavano una tendenza preoccupante: una caduta nel sostegno a Obama tra gli indipendenti, condizionati in parte proprio dalle questioni di sicurezza nazionale». All’interno della Casa Bianca lo slancio e l’ottimismo iniziali svanirono. L’amministrazione cominciò anche a temere che il «caso Guantánamo» potesse distrarre da priorità interne come la sanità e il rafforzamento dell’economia.
All’inizio di maggio, Obama decise di non trasferire i detenuti uiguri negli Stati Uniti. «È stata una decisione politica», disse esplicitamente al Time una fonte interna all’amministrazione. Due settimane dopo, il presidente cercò di affrontare il crescente malcontento generale con un grande discorso sulla sicurezza nazionale. Non solo annunciò che avrebbe lavorato con il Congresso per rinnovare le commissioni militari dell’era Bush, ma abbracciò anche l’uso della detenzione a tempo indeterminato e senza imputazione o processo per un gruppo di detenuti «che non possono essere perseguiti e che tuttavia pongono un chiaro pericolo per il popolo americano».

SINTOMO DI UN PROBLEMA NAZIONALE
Ci sono dunque molti fattori che spiegano perché il presidente Obama non è riuscito a chiudere la prigione durante il suo primo mandato: non ha esercitato una pressione abbastanza forte, i repubblicani hanno strumentalizzato le paure degli americani, il governo non era preparato - o disposto - a rispondere agli attacchi dei repubblicani. Va anche aggiunto che il Congresso, in perfetto stile bipartisan, ha stabilito restrizioni sul trasferimento di prigionieri da Guantánamo. Anche gli americani, collettivamente, ne sono responsabili: se per Obama fosse stato politicamente popolare portare fino in fondo la sua promessa di chiudere Guantánamo, lo avrebbe fatto.
Ma c’è di più. Se si guarda un po’ più in profondità, diventa chiaro che Guantánamo è soltanto un sintomo di un problema più ampio, che riguarda il sistema carcerario negli Usa. Molti americani credono che Guantánamo sia una deviazione dalla norma, che sia una macchia isolata e senza precedenti sulla reputazione degli Stati Uniti come leader morali del mondo. In realtà, Guantánamo è coerente con il triste record di carcerazione che possono «vantare» gli Stati Uniti. Attualmente, infatti, nel Paese sono detenuti circa due milioni di uomini, donne e minori, la più alta percentuale al mondo rispetto alla popolazione residente.
Molti stanno scontando pene per reati non violenti, come quelli legati alla droga. In alcuni Stati sono in vigore leggi che prevedono il carcere a vita per reati contro terzi. In alcuni centri di detenzione per minori, i ragazzi vengono puniti con l’isolamento in cella per 23 ore al giorno. La pena di morte è ancora in vigore in 33 Stati su 50. A causa del sovraffollamento e dei budget limitati, molti Stati hanno affidato la gestione delle prigioni a organizzazioni private che mantengono bassi i costi e fanno profitto tenendo pieni i «posti letto».
Se gli americani approvano pratiche così crudeli in casa propria, non sorprende che ci siano indifferenza o totale sostegno a mantenere aperta Guantánamo. Perché gli americani dovrebbero interessarsi ai diritti umani di poche centinaia di persone accusate di terrorismo e ritratte (spesso erroneamente) come tuttora pericolose per la sicurezza nazionale? Gli americani preferiscono concentrarsi sui problemi dell’economia o della sanità, e l’amministrazione Obama li accontenta.

GUANTÁNAMO OGGI
Uno dei motivi per cui Obama è riuscito a trasferire solo pochi prigionieri è il fatto che il Congresso ha ridotto i fondi destinati a queste operazioni. Così, negli ultimi due anni, solo quattro uomini hanno lasciato Guantánamo: due uiguri sono stati sistemati in El Salvador; Omar Khadr, detenuto da quando aveva quindici anni, è stato trasferito in Canada per scontare la sua pena; Adnan Latif, yemenita, ha lasciato la prigione in una bara, deceduto per una overdose di psicofarmaci.
Restano 166 detenuti a Guantánamo. La maggioranza, precisamente 132, non sarà processata: per 86 prigionieri è stato approvato il trasferimento o il rilascio, mentre 46 verranno trattenuti indefinitamente, soggetti a revisione periodica. Sette detenuti sono attualmente sotto processo davanti a commissioni militari e per altri 24 è previsto l’inizio di un analogo processo. Solo tre detenuti su 166 sono a Guantánamo per scontare effettivamente una pena, dopo essere stati sottoposti a un processo.
Poco prima di essere rieletto, Obama ha di nuovo dichiarato di voler chiudere Guantánamo. Se ha seriamente intenzione di mantenere la promessa, dovrà agire su due livelli.
Anzitutto, deve porre fine alla detenzione di coloro per cui è stato approvato il trasferimento. Per fare questo, il presidente dovrebbe porre il veto su qualunque bilancio per la difesa che includa restrizioni alla sua possibilità di trasferire detenuti da Guantánamo. Già in passato Obama ha annunciato di volere agire così. Ora dovrebbe farlo davvero.
In secondo luogo, il presidente deve chiudere la cosiddetta «guerra al terrore». Il percorso convenzionale per chiudere Guantánamo prevede di trasferire negli Stati Uniti i prigionieri rimasti, perché siano processati o detenuti secondo le leggi di guerra. È una strada sbagliata. Limitandosi a trasferire le persone in un posto diverso, non si affronta il vero problema di diritti umani legato a Guantánamo: la detenzione illimitata senza imputazione o processo.
In questo senso Obama ha ricalcato il metodo di lotta al terrorismo dell’era Bush, un metodo sbagliato. I sospettati di terrorismo dovrebbero essere processati nei tribunali federali secondo la Costituzione, non in sistemi extralegali e senza le garanzie di un giusto processo. Purtroppo sia il Congresso sia la Corte suprema appoggiano il sistema attuale. Guantánamo non chiuderà e si continuerà a fare uso della detenzione a tempo indeterminato finché la «guerra al terrore» non sarà finita.
La posta in gioco nel secondo mandato di Obama è altissima. Tra quattro anni, quali tra i fallimenti di Bush saranno ancora presenti? Se la «guerra al terrore» continuerà e la prigione di Guantánamo rimarrà aperta, è probabile che la guerra e la prigione diventeranno componenti permanenti della politica estera americana.

Luke Hansen SJ


L’AUTORE
Luke Hansen, gesuita, è un collaboratore fisso di America, settimanale cattolico pubblicato negli Stati Uniti. Nel 2010, alle Bermuda, ha incontrato ex prigionieri di Guantánamo e più recentemente ha visitato la base per seguire il processo per crimini di guerra contro cinque detenuti accusati di aver organizzato gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.



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