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"L'industria della carità": quando un libro fa solo male
11 aprile 2013

Venduto come un’indagine giornalistica sul lato oscuro del non profit e della cooperazione, il libro di Valentina Furlanetto è stato fortemente criticato da molte organizzazioni del Terzo settore che ne hanno respinto l'impianto analitico e la valutazione dei fatti. Pubblichiamo la recensione - apparsa sul numero di aprile di Popoli nella rubrica «Sul comodino» - di Silvia Pochettino, direttrice di Volontari per lo sviluppo e ideatrice di "Ong 2.0 - Cambiare il mondo con il web".


Ha fatto parlare di sé in questi mesi il libro L’industria della carità, di Valentina Furlanetto (ed. Chiarelettere), e credo che il vero - e forse unico - obiettivo dell’autrice fosse proprio quello. Venduto come un’indagine giornalistica sul lato oscuro del non profit, il libro si rivela drammaticamente confusionario e superficiale nell’analisi, se non addirittura in cattiva fede nel volere a tutti i costi confermare alcune tesi precostituite.

Fonti e dati vengono usati in un modo così palesemente strumentale da risultare talvolta paradossale. I primi capitoli sono costruiti sul racconto di quattro cooperanti (di cui alcuni allontanati dalle loro associazioni ed evidentemente rancorosi verso le associazioni stesse). Ne emerge un quadro desolante che può essere anche vero nel vissuto di quelle persone, ma che non può avere alcun autentico valore di documentazione. Negli anni ho parlato con decine di cooperanti e volontari e so bene quanto i vissuti personali siano profondamente diversi da persona a persona: per questo in un lavoro giornalistico serio è imprescindibile verificare i fatti con interviste incrociate alle associazioni chiamate in causa e agli altri soggetti coinvolti nei racconto. Niente di tutto questo viene fatto, le chiacchierate della Furlanetto con quattro cooperanti delusi sono l’unica fonte di documentazione per interi capitoli.

Seguono capitoli con un’enorme quantità di dati, che all’apparenza dovrebbero rendere più scientifica l’analisi. Ma di nuovo non è così. I dati sono usati in modo selettivo per far apparire scandalose cose che scandalose non sono. Una cosa è accusare un’associazione perché ha costi di struttura troppo elevati, un’altra è accusarla perché spende in attività di comunicazione o fundraising. Come si fa a ritenere scandaloso che realtà come Amnesty International o Greenpeace spendano ampie parti del loro budget in comunicazione, quando la loro mission stessa è comunicare? Ancora, è scandaloso investire in campagne di fundraising popolare o non è un giusto modo per staccarsi da finanziamenti pubblici discutibili?

La Furlanetto fa poi confusione su cose basilari, mette insieme Ong, Croce rossa, associazioni non profit, senza considerare le profonde differenze da settore a settore, e ricade compiaciuta in stereotipi vecchi di decenni come quello dei cooperanti che viaggiano su auto di lusso, tralasciando invece di indagare se i progetti di cooperazione raggiungano gli obiettivi oppure no. Perché una vera inchiesta sull’impatto dei progetti di cooperazione internazionale sullo sviluppo locale sarebbe stata molto utile. Così come un’indagine sull’efficacia e l’efficienza delle Ong, con analisi organizzative e di bilancio, avrebbe fatto solo bene al settore. Ma qui siamo lontani anni luce.

Un’occasione perduta, un libro «costruito sul nulla», come sostiene lapidario il professor Stefano Zamagni. Un libro che, più che offendere la cooperazione, offende il giornalismo.

Silvia Pochettino
© FCSF – Popoli