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Paolo Rumiz: il mio racconto "collettivo" sulla cooperazione pulita
7 settembre 2011
Come pochi, Paolo Rumiz sa raccontare il viaggio e l’incontro con l’altro. A Est, la sua «direzione maestra», ha saputo aprire percorsi di comprensione, soprattutto di una parte di Europa che usciva da un lungo tempo di separazione.
Invitato a parlare di Africa, attraverso il lavoro del Cuamm - Medici con l’Africa, Ong che da sessant’anni si impegna per la salute in quel continente, ha compiuto due itinerari, uno attraverso le storie di medici e operatori dell’organizzazione, l’altro sul campo, tra Uganda e Sud Sudan, in zone dove le guerre civili spesso mettono in fuga volontari e cooperanti. Ne è nato Il bene ostinato (Feltrinelli, Milano 2011, pp. 138, euro 14), che è la scoperta di un impegno tenace, una missione per gli altri.

In che modo è arrivato a scrivere di Africa, deviando dai percorsi esteuropei e mediorientali che sono il cuore di molti suoi libri e articoli?
La vita è imprevedibile. Ogni tanto qualcosa si mette di traverso sulla tua strada e ti fa deviare. Ben vengano queste deviazioni perché aprono la mente. E non mi riferisco solo a concetti, ma soprattutto a incontri. Le persone che ho conosciuto al Cuamm mi hanno tolto ogni «difesa» in pochi minuti, anche se mi trovavo in un momento di affanno per i tanti impegni. La loro proposta mi ha messo in crisi: non volevo dire di no e poi pentirmene. Questo lavoro andava fatto subito e così ne è risultato il libro che ho scritto più velocemente. Mi ha aiutato il mestiere che faccio, ma è importante dire che questo libro non l’ho scritto io, bensì loro. Sono stato l’interprete di voci altrui, ho prestato l’orecchio a un racconto «collettivo», di quelli che piacciono a me. Sentivo la necessità di offrire un fiume a tutti questi torrenti, a questi affluenti che avevano bisogno in qualche modo di essere narrati in modo unitario, senza la pretesa di essere esaustivo. In poco tempo potevo solo raccontare il mio viaggio e la mia meraviglia.

Che cosa c’è di unico nel lavoro dei Medici per l’Africa?
Unico in Italia è questo impasto di efficienza, di letizia e di persistenza sul territorio. Questa è gente che non molla l’osso, che dopo trent’anni è ancora lì. Non sono come certe Ong «toccata e fuga» che partono lasciando vuoti tremendi o come altre che spendono tre quarti del loro denaro per mantenere il proprio apparato. Se questa gente sostituisse il nostro ministero degli Esteri, avremmo una grande politica estera. Non si fanno tentare da amicizie imbarazzanti, oggi che perfino la mafia guarda alle Ong come luogo in cui guadagnare. Serve essere puliti, efficienti, dare testimonianza, e loro lo fanno.
In generale gli italiani hanno pregi e difetti nel rapporto con i Paesi terzi. Da una parte siamo quasi sempre privi di atteggiamento coloniale, riuscendo a esprimere rispetto, vicinanza ed empatia. Dall’altra siamo spesso slegati, ognuno va per conto suo, creiamo doppioni, siamo spesso pasticcioni, per cui è stato il massimo per me trovare un’organizzazione che avesse i pregi senza avere i difetti nostri.

Nel libro si percepisce la fatica ma anche il desiderio dell’incontro con una realtà così diversa come quella africana...
La diversità non è per forza una barriera. Al di là di questa gigantesca differenza storica e culturale, esistono elementi comuni. Credo che il problema di chi parte come cooperante non sia tanto adattarsi all’Africa, ma riadattarsi al mondo di provenienza, perché torni modificato, hai perso l’abitudine alla complessità. In un mondo come il nostro troppo pieno di segnali che ti distraggono dall’essenziale, tornare può significare diventare ancora più insofferenti. Chi scappa in Africa per fuggire a certi aspetti della vita qui, quando torna sta ancora peggio. Il problema è quello di sapere appartenere a uno di questi due mondi. Alcuni dei figli di questi pionieri del Cuamm sono diventati in ogni aspetto africani, anche se hanno la pelle bianca. O fai così, oppure resti in sospeso e ti senti straniero.
È un’estraneità sentita molto dai viaggiatori. In questo viaggio africano mi veniva confermata dalle esperienze delle persone che incontravo. Io ci sono stato troppo poco per soffrire una «crisi di rientro». Lo scrive mio figlio che ha lavorato in Uganda, in una lettera che riporto nel libro: «Sono rientrato perché capivo che avrei dovuto diventare uno di loro e non lo sarei mai stato».
Questo sentirsi stranieri in ogni luogo è però anche una posizione stimolante perché trai da questa perenne estraneità ai luoghi in cui vivi la convinzione che non è il mondo che ti appartiene, ma sei tu che appartieni al mondo. È un’estraneità che porta pensieri molto sani nel nostro rapporto con il mondo, una cosa che non ci accade nelle nostre città.
Francesco Pistocchini
© FCSF – Popoli