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Le crisi dell'Europa viste dai gesuiti
16/05/2014

La Ue, che il 22-25 maggio vota per il suo nuovo Parlamento, è scossa da un malessere che potrebbe compromettere o rilanciare il progetto unitario. Alcuni gesuiti europei, impegnati in diversi Paesi e ambiti, analizzano le sfide aperte. Il testo completo del servizio è pubblicato sul numero di maggio di Popoli. Qui l'articolo introduttivo.

Alcune «crisi» si rivelano immaginarie. Negli anni Novanta si temette che il sistema informatico sarebbe collassato allo scoccare della mezzanotte dell’anno 2000, provocando il caos nella gestione dei dati, nelle strade, nei cieli. Avevo un’amica a Londra che per lavoro visitava i principali terminal delle ferrovie britanniche e dava consigli su come evitare il Millennium bug. O lei è stata al 100% efficiente nel suo lavoro o qualcuno stava esagerando. La crisi economica esplosa nel 2009, tuttavia, è tutt’altro che immaginaria e questa riflessione sintetizza il pensiero del Jesc, il Centro sociale europeo dei gesuiti, maturato nel corso degli ultimi anni.

Nel 2012, durante un seminario, l’economista Gabriel Pérez Alcalá, rettore dell’Università Loyola dell’Andalusia, identificava gli elementi costitutivi della crisi: il tasso di crescita di quasi tutte le economie mondiali era al di sotto dei livelli previsti; la disoccupazione cresceva mentre le imprese fallivano; le famiglie soffrivano per i redditi stagnanti o in calo, o perché sommerse dai debiti. La perdita di sicurezza sul futuro ha paralizzato un sistema economico che dipende sempre dalla fiducia.

Le prime cause scatenanti sono ben conosciute: il boom della finanza speculativa, i «mutui subprime» e il «debito tossico» che hanno richiesto il salvataggio di banche che avevano ampiamente approfittato della bolla speculativa, minando la stabilità del sistema; le massicce quantità di debito pubblico che ne sono derivate. Ma alcune cause stanno ancora più alla radice.


LE CAUSE PROFONDE

1) Nel corso del XX secolo la proporzione di persone che in Europa occidentale viveva di agricoltura è crollata da più del 50% al 2%. La popolazione globale è quadruplicata e la speranza di vita in Europa è quasi raddoppiata. Se si considera anche la rivoluzione tecnologica, che senza sosta sostituisce il lavoro umano con l’automazione, diventa sempre meno plausibile offrire un lavoro decente e a tempo pieno a tutti, sia in agricoltura, sia nell’industria.

2) Alcuni problemi insolubili derivano da importanti fattori precedenti. Le potenze imperiali europee (e, in seguito, gli Usa) un tempo dominavano il commercio mondiale e avevano il monopolio della ricchezza del pianeta. Esportavamo beni manufatti, bloccando qualsiasi possibile competitore locale, e importavamo materie prime a basso costo. La perdita da parte degli europei di questi vantaggi comparativi può provocare una crisi «per noi» e gli effetti sulle fasce più emarginate dei nostri stessi Paesi possono essere crudeli: ma questa perdita «raddrizza» un’ingiustizia storica.

3) Sia nelle economie emergenti sia in quelle tradizionalmente sviluppate, la disuguaglianza ha avuto un’impennata. La globalizzazione e il dominio del settore finanziario hanno favorito i più ricchi, specialmente in Occidente. Negli Usa l’1% della popolazione possiede il 40% della ricchezza nazionale e intasca il 22% dei redditi nazionali. Uso il termine «intasca» e non «guadagna» perché si tratta del loro denaro, ma non è il loro lavoro che procura ai ricchi la gran parte di questo guadagno, che arriva invece da dividendi azionari e utili di capitali. La base, costituita dall’80% della popolazione (che comprende sia i poveri sia la classe media), possiede solo il 7% della ricchezza americana: il 90% che sta in fondo alla scala sociale guadagna meno rispetto a vent’anni fa, in termini reali. Infatti, quasi tutta la crescita economica degli Usa degli ultimi vent’anni è andata a beneficio dell’1% dei cittadini. Tendiamo a considerare la crescita un bene in sé, ma una crescita rapida senza distribuzione sociale è un cancro per la società.

4) L’economia liberale che assicura i guadagni dei ricchi (tassazione più bassa, attività bancarie offshore, ecc.) cerca anche di ridurre al minimo la spesa pubblica. Ma una saggia spesa favorisce l’occupazione e va incontro agli autentici bisogni sociali: un sistema sanitario universale, un’istruzione di alta qualità per tutti, adeguate infrastrutture nei trasporti, ecc. Descrivere tali investimenti sociali essenziali come non desiderabili per principio è un inganno ideologico del neoliberalismo.

5) Assistiamo all’inevitabile fallimento dei governi nazionali nel regolare le industrie multinazionali e la finanza globale o nell’attuare riforme rispetto alla distribuzione distorta dei redditi finanziari. Credo che questo fallimento sia la ragione più profonda della tanto deplorata «perdita di fiducia nei politici» e della bassa partecipazione alle elezioni, siano esse locali, nazionali o europee. Gli elettori percepiscono che il potere globale che conta non sta nelle mani dei propri rappresentanti eletti, ma nella finanza globale: le società e le associazioni commerciali che hanno sufficiente capacità di lobby per bloccare cambiamenti politici significativi. Perciò la crisi economica provoca anche una crisi di democrazia e di cittadinanza.

6) Concentrarsi sugli stimoli «all’economia» toglie di vista il bisogno urgente di contrastare la crisi ambientale che è ugualmente grave. Si danno stimoli alla crescita di beni e servizi essenziali, tuttavia avremo bisogno di porci alcuni limiti in altri tipi di consumi. Una risposta efficace alla crisi ambientale presuppone una programmazione di lungo termine da parte di governi e istituzioni internazionali. Nelle democrazie, chiamate «le dittature della generazione presente», perché le elezioni mettono al primo posto le idee per il breve periodo, i piani dei governi rischiano sempre di essere rovesciati dai governi successivi. In tal senso, una pianificazione coerente, che arrivi al 2030 o 2050 ha «bisogno» di un deficit democratico! Questa necessità rappresenta una crisi per la democrazia sociale, crisi che abbiamo appena iniziato ad affrontare.

Frank Turner SJ
Segretario per gli affari europei del Jesc
(Jesuit European Social Centre), Bruxelles

© FCSF – Popoli