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Libia, le incognite del dopo Gheddafi
23 agosto 2011
L’attacco a Tripoli degli ultimi giorni sta portando a una svolta della guerra civile libica iniziata il 17 febbraio di quest’anno. A dispetto di possibili colpi di coda, il regime di Muammar Gheddafi durato 42 anni (Gheddafi prese il potere il 1° settembre 1969 abbattendo re Idris) sembra così avviato al tramonto. Ma quale futuro aspetta la Libia? Popoli.info ne ha parlato con Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) ed esperto di Libia.

Con la caduta di Gheddafi quale sistema politico si potrebbe affermare in Libia?
La Libia è uno Stato giovane, essendo nato come entità unitaria solo alla fine della seconda guerra mondiale. In essa convivono tre anime: un’identità nazionale (assai debole) che si è venuta formando prima sotto il regno di Idris al Senussi poi sotto il regime di Gheddafi; un’identità locale, la Libia è infatti divisa in tre grandi regioni: Tripolitania. Cirenaica e Fezzan; infine un’identità clanica. Il futuro del Paese dipende da come queste tre identità interagiranno tra loro e se una di queste prevarrà sulle altre. La rivolta ha infatti rimescolato le carte e rimesso in discussione tutti gli equilibri.

Come sono cambiati negli ultimi mesi i rapporti tra i numerosi clan in cui è suddivisa la società libica?
I rapporti tra i clan si andranno ridefinendo nei prossimi mesi. È quindi prematuro fare analisi o azzardare previsioni. Penso che un fattore determinante nella caduta repentina di Gheddafi sia stata la defezione di Abdessalam Jalloud (che pare sia stata favorita dai servizi segreti italiani e dall’intervento «politico» dell’Eni, ndr). Ex numero 2 del regime, da una ventina di anni non ricopriva incarichi ufficiali, ma apparteneva a un clan molto consistente e influente in Tripolitania. Gheddafi, pur mettendo da parte Jalloud, aveva sempre riservato incarichi importanti ai membri di questa cabila. Il fatto che Jalloud, che comunque è una figura carismatica, sia scappato all’estero è stato un segnale chiaro che il suo gruppo aveva tolto il sostegno ad al Qaid, la Guida suprema.

Quali orientamenti politici assumerà il Comitato nazionale transitorio di Bengasi una volta preso il potere?
Da quando si può capire dall’Europa, notiamo come il Cnt abbia due anime: una democratica con una sensibilità più laica e l’altra più vicina a sentimenti radicali islamici. Come queste anime possano collaborare o confliggere tra loro non è ancora chiaro. Quindi non sappiamo ancora se il Comitato sarà in grado di governare il Paese o se invece si spaccherà e si avvierà un processo di somalizzazione della Libia.

Quale ruolo avranno nel dopo Gheddafi gli Stati Uniti e l’Europa?
Gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo defilato e, credo, vogliano mantenere questo basso profilo perché il presidente statunitense Barak Obama non vuole impegnarsi su un altro fronte militare. Anche l’Europa nella situazione di crisi economica e finanziaria attuale non mi sembrano vogliano impegnarsi in un’azione di peacekeeping. Bisognerà vedere nelle prossime settimane se questa azione di peacekeeping sarà o meno necessaria. Nonostante la volontà di non intervenire, una missione di mantenimento della pace potrebbe essere inevitabile qualora si affermasse una situazione di instabilità alle porte di casa.

Quali rapporti si instaureranno con l’Italia?
Con l’Italia si chiude un’epoca di relazioni privilegiate Roma-Tripoli (l’Accordo siglato nel 2008 formalmente è «sospeso», anche se potrebbe essere «riattivato» con i nuovi governanti libici, ndr). Dal punto di vista economico nell’immediato cambierà poco perché chiunque governerà la Libia avrà la necessità di riavviare i pozzi petroliferi e l’industria dell’energia il prima possibile e l’Italia, in questo settore, è un partner affidabile e vicino geograficamente. Nel medio e lungo periodo invece tutto dipende dall’assetto politico che assumerà la Libia. Da questo assetto dipenderà anche la regolazione dei flussi migratori. Solo se ci sarà un governo stabile e democratico sarà possibile siglare accordi per il contenimento di questi flussi nel rispetto dei diritti umani.

La Libia è uno dei principali esportatori africani di petrolio. Questa risorsa sarà la ricchezza che rimetterà in moto il Paese?
Potenzialmente sì, ma solitamente nei Paesi in via di sviluppo la presenza di ricchi giacimenti petroliferi fa sì che si produca un patto sociale tra cittadino e governante che rende difficile l’instaurazione di una democrazia autentica. Il governante è tentato di distribuire la rendita in modo clientelare e i cittadini sono propensi ad accettare queste rendite, sostenendo il potere. Così è avvenuto in Libia negli anni passati. E temo che il modello possa ripetersi in futuro con nuovi attori politici

C’è dunque il rischio che la Libia si trasformi in un «santuario» del fondamentalismo islamico?
La Libia è sempre stato un bacino di pescaggio dell’islamismo radicale. Non tanto per una propensione al fondamentalismo dei libici, ma perché i libici trovavano nell’islam radicale e nell’andare a combattere in Iraq e in Afghanistan l’unica valvola di sfogo politico, considerato anche che vivevano in un regime politico oppressivo. Nel Cnt c’è una componente che si rifà all’islamismo politico radicale. Una componente che ha offerto un grande contributo in questi mesi di guerra. Saranno i prossimi mesi a dirci il reale peso di questa fazione nel futuro governo della Libia.
Enrico Casale
© FCSF – Popoli