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"Ma la repressione ha solo cambiato faccia"
15 marzo 2012
«Vuole che le suggerisca il titolo? “Cronaca di una transizione annunciata”. Ogni cubano lo sa: il regime non potrà frenare per sempre il cambiamento. Prima o poi dovrà arrendersi. Il punto è quanto tempo ci vorrà». Elizardo Sánchez parla con tono pacato dal suo cellulare «di servizio». Lì, infatti, riceve la maggior parte di denunce dei dissidenti minacciati e arrestati e le lamentele dei familiari. Le annota e le trasforma nei rapporti della Commissione nazionale per i diritti umani, formalmente clandestina, ma in parte tollerata grazie al prestigio di cui gode all’estero: è tra i «barometri» più attendibili sul grado di repressione nell’isola.
Appena cinque anni fa, Sánchez era costretto a maratone estenuanti per raccogliere le informazioni, alternate a lunghe attese di fronte al telefono di casa. Poi Raúl Castro ha ereditato le redini del potere dal fratello e Líder máximo Fidel, prima in modo provvisorio fino a entrare in pianta stabile come presidente, nel 2008. E, nel suo primo pacchetto di riforme, ha legalizzato i cellulari.
Da allora si sono succeduti centinaia di «aggiustamenti» - come li definisce Castro-bis - per «attualizzare il modello economico». Ovvero una serie di micro-strappi e altrettante concessioni al libero mercato per evitare il tracollo. I cartelli se vende (vendesi) che tappezzano i muri diroccati delle case all’Avana sono solo il segno più visibile del «socialismo ai tempi di Raúl». In cui si possono comprare liberamente case, auto e mettere su microimprese (e già 360mila cubani hanno scelto di farlo). Ci si può perfino arricchire, come ha ribadito lo scorso aprile il Congresso del Partito comunista (Pcc). In compenso, però - e su questo il Pcc è stato fin troppo chiaro -, resta vietata ogni forma di dissenso. Insieme all’obbligo del visto per viaggiare all’estero, alla censura sui media e al bavaglio su Internet.

IL PAPA VISTO DA UNA CELLA
Eppure, al di là dei proclami ufficiali, i mutamenti economici e l’inasprimento delle disuguaglianze gettano i semi di nuove forme di opposizione, meno ideologiche e più pragmatiche. È un’isola in fermento quella su cui atterrerà il 26 marzo Benedetto XVI, a 14 anni di distanza dalla storica visita di Giovanni Paolo II. Rispetto al 1998 tutto e niente è cambiato nell’ultimo baluardo del «socialismo reale» in Occidente, dove un Castro è ancora al comando. Di certo non è mutato l’entusiasmo della gente per l’evento. Nemmeno fra i più scettici rispetto ai suoi esiti pratici. «Il governo cercherà di strumentalizzare il viaggio e di attribuirgli un significato di legittimazione politica. Io credo invece che questa non sia una visita politica. Il papa viene qui a dimostrare l’amore e la preoccupazione per il popolo cubano», dice lo storico dissidente Oswaldo Payá. È entusiasta anche l’attivista Héctor Palacios, che ricorda l’emozione provata da una cella quando nel 1998 arrivò sull’isola Giovanni Paolo II. Ma il viaggio di Wojtyla, secondo Palacios, non ebbe solo un significato religioso: «Il popolo capì che poteva manifestare per qualcosa di diverso che non fossero i raduni del regime. Quello è stato l’inizio di una lenta presa di coscienza, sull’onda dell’invito di Giovanni Paolo II: “Che Cuba si apra al mondo”. Fu il primo a dire una cosa del genere in pubblico».
Di certo, a cambiare in questi anni è stata la condizione dei cattolici nell’isola. «C’è molta più tolleranza ora. Non dobbiamo dimenticare che per decenni i cattolici sono stati discriminati o addirittura perseguitati - racconta Payá -. A 17 anni sono stato rinchiuso per tre anni in un campo di rieducazione alla Isla de Pinos perché ero credente. Ora la vigilanza sui cristiani continua, le celebrazioni sono spiate e su ognuno di noi c’è un fascicolo, ma sono stati fatti numerosi passi avanti».
«Le relazioni con il governo sono entrate in una nuova fase, qualitativamente superiore - conferma Orlando Márquez, direttore della rivista dell’arcidiocesi della capitale, Palabra nueva -. Nel 2010 è cominciato un dialogo più profondo, che è andato avanti. E questo è positivo». Allo stesso tempo, si è ampliato il ruolo sociale della Chiesa: «Questa comincia a occupare, poco a poco, un posto nella società. Certo, ancora siamo ben lontani rispetto a ciò che si potrebbe ottenere, però la situazione è nuova». Tanto che molti guardano proprio alla Chiesa cubana come un attore fondamentale nel promuovere all’interno del sistema un processo di apertura. «A Cuba ci sono persone favorevoli a un cambiamento radicale e altre contrarie. Entrambe possono trovarsi nella Chiesa, che si è trasformata in un grande spazio di confronto. Perché, a differenza che in altre epoche, al suo interno ci sono sia sostenitori sia oppositori del governo».

L'ATTESA DELLE MAMME
Dunque un embrione di società plurale in un sistema ancora dominato da un rigido monopartitismo. Che si esprime, tutt’ora, in una capillare repressione. «In realtà, negli ultimi due anni stiamo assistendo a una “metamorfosi politica della repressione” - afferma Sánchez -. I Castro (perché continuano a comandare entrambi) si sono resi conto che non sono più necessarie lunghe detenzioni per terrorizzare il dissenso. Queste sono state sostituite da arresti continui, ma di breve durata. La cosiddetta “repressione di bassa intensità”, oltre a mantenere elevata la pressione sull’opposizione, ha il vantaggio di essere meno visibile dall’opinione pubblica mondiale».
Se nel 2010 si sono registrati almeno 2mila fermi brevi, nel 2011 ce ne sono stati il doppio, oltre 4mila, ben 800 nel solo mese di dicembre. Il regime, peraltro, non ha rinunciato del tutto alle lunghe pene punitive. Come dimostra il caso di Juan Melchior Rodríguez, condannato nel 2010 a 12 anni di reclusione per il fatto di essere figlio dell’attivista Rosa María Rodríguez Gil. O i tuttora 50 prigionieri politici - secondo la Commissione nazionale per i diritti umani - sepolti nelle carceri dell’isola.
Per la loro libertà continuano a marciare ogni domenica le Damas de blanco, gruppo di madri, figlie o compagne degli oppositori arrestati nel 2003. Dopo il rilascio di questi ultimi - avvenuto grazie alla mediazione del cardinale Jaime Ortega y Alamino - hanno deciso di continuare a protestare «fin quando a Cuba ci sarà anche un solo detenuto di coscienza». «Siamo solo donne disperate che chiedono libertà per i loro cari - spiega la leader, Berta Soler -. Non siamo un movimento politico eppure il governo non smette di perseguitarci. Vorremmo avere l’occasione di raccontarlo al Santo Padre e di descrivergli le minacce, le percosse, gli abusi che subisce chiunque cerchi di difendere i diritti umani in questo Paese».
Le Damas hanno chiesto ufficialmente un incontro con Benedetto XVI. Una lettera del gruppo è stata consegnata alla nunziatura il 7 dicembre 2011. Un mese dopo, il 7 gennaio, le «Signore in bianco» hanno incontrato il nunzio il quale ha comunicato loro che la missiva è stata inviata a Roma. «Ora aspettiamo con ansia. La Chiesa cattolica ha avuto un ruolo fondamentale nel crollo del regime polacco. Magari, se avremo l’opportunità di spiegare a Benedetto XVI come stanno le cose, il miracolo si ripeterà anche qui, sotto il sole dei tropici».
Lucia Capuzzi
© FCSF – Popoli