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Miniere sudafricane, crisi finita?
19 settembre 2012
L’accordo sindacale è stato raggiunto proprio oggi: i minatori che rientreranno al lavoro avranno un aumento di duemila rand (190 euro). La vertenza che ha sconvolto il settore minerario sudafricano da inizio di agosto non sembra però destinata a terminare presto. Sono troppi i significati extra sindacali che le rivendicazioni salariali dei minatori hanno via via assunto che anche l’intesa probabilmente non metterà un punto fermo alla vicenda.

L’ondata di proteste è cominciata nella prima metà di agosto nella miniera di platino di Marikana. I lavoratori chiedevano alla multinazionale Lonmin che gestisce il sito un aumento salariale fino a 12.500 rand (circa 1.200 euro). Per sostenere le loro rivendicazioni hanno iniziato a organizzare scioperi che sono stati duramente repressi dalle forze dell’ordine. Il 16 agosto la reazione spropositata della polizia ha causato la morte di 34 minatori. In segno di solidarietà alla lotta dei lavoratori di Marikana, anche i minatori di altri siti nel bacino di Rustemburg (Johannesburg) hanno incrociato le braccia, bloccando di fatto un comprensorio che garantisce il 10% del Pil sudafricano. «La vertenza sindacale - spiega Anthony Egan, gesuita sudafricano, sociologo e analista politico - è stata molto dura. Da una parte il management della società Lonmin fermo nel negare qualsiasi aumento. Negli ultimi anni, il costo delle estrazioni in Sudafrica è infatti aumentato in modo considerevole, rendendo le miniere, un business meno redditizio rispetto al passato. Sebbene il platino garantisca ancora buoni margini rispetto all’oro, anche in questo settore i profitti sono calati. Dall’altra parte, i minatori devono far fronte a un costo della vita in forte crescita che li ha immiseriti, costringendoli a vivere in condizioni drammatiche. Così si è creata un impasse nelle trattative e un irrigidimento delle posizioni. E da qui è scoppiata la rivolta».

Sulle rivendicazioni dei lavoratori si è innestato uno scontro tra diverse sigle sindacali. Da una parte la National Union of Mineworkers (Num) federata al Cosatu (Congress of South African Trade Union), il sindacato vicino all’African National Congress (Anc), il partito di potere; dall’altra l’Amcu, una piccola sigla sindacale che rappresenta i lavoratori non sindacalizzati. Quest’ultima ha sostenuto fino alla fine le rivendicazioni dei minatori, senza scendere a compromessi al tavolo delle trattative. L’obiettivo era quello di riuscire a strappare consensi al sindacato maggioritario. «La vertenza - continua padre Egan - è stata condizionata dalla lotta delle sigle sindacali per strapparsi il consenso dei lavoratori. Il Num ha scontato il fatto di essere una federazione del Cosatu. Questa confederazione sindacale vuole essere vicina ai lavoratori ma, allo stesso tempo, è legata all’Anc i cui leader hanno grandi interessi nelle compagnie minerarie. L’Anc si presenta come il partito dei poveri, ma è gestito da ricchi che usano le strutture del partito per arricchirsi ulteriormente».

Ma anche la politica ha strumentalizzato la vertenza. Sullo sfondo degli scontri si è intravista la lotta per la presidenza della Repubblica. Jacob Zuma, l’attuale presidente e leader dell’Anc, si è trovato a fare i conti con Julius Malema, l’ex presidente del movimento giovanile dell’Anc cacciato dal partito nel novembre 2011. «Malema - osserva padre Egan - ha cavalcato la protesta sebbene molti minatori lo considerassero un opportunista che sfruttava la vertenza per fini politici. Anch’io credo che sia un opportunista. La vertenza gli è servita per gettare discredito sulla leadership di Zuma e sull’Anc. L’obiettivo è far dimettere Zuma dall’Anc e quindi dalla presidenza della Repubblica. La stessa strategia che Zuma ha utilizzato alcuni anni fa per scalzare dal potere Thabo Mbeki».
Enrico Casale

© FCSF – Popoli
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