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Myanmar, quando i perseguitati sono musulmani
5 novembre 2013

Desolazione, distruzione e silenzio. I padroni delle strade di Sittwe - città portuale birmana che si affaccia sul golfo del Bengala - sono i cani randagi. Al centro di interessi economici e geostrategici regionali, nell’ultimo anno e mezzo il capoluogo dello Stato Rakhine è stata testimone di violenze continue tra rohingya, il gruppo etnico di fede islamica e mai riconosciuto ufficialmente dal governo birmano, e la popolazione rakhine, di fede buddhista, sostenuto dai birmani bamar, che costituiscono la maggioranza del Paese.

Un conflitto tra due gruppi etnici, ovvero tra la minoranza musulmana e la maggioranza buddhista, in un Paese che conta 135 etnie ufficialmente riconosciute. Un conflitto esploso in tutta la sua crudeltà nel maggio 2012 dopo lo stupro e l’omicidio di una donna di religione buddhista. Del crimine, finito sulle prime pagine della stampa nazionale e internazionale, sono stati accusati «tre musulmani». Da allora, un’ondata di odio ha visto morire donne, uomini e bambini e spinto oltre centomila persone nei campi per rifugiati allestiti in tutta fretta. Chiusi e quasi impenetrabili per quanti hanno provato a dare testimonianza di una ferita che sta lacerando il processo di democratizzazione della Birmania, oppressa per oltre mezzo secolo dalla dittatura militare.

Alcuni giorni dopo l’omicidio, nella cittadina costiera di Toungup, a metà strada fra Yangon e Sittwe, circa 300 cittadini di fede buddhista hanno deciso di rispondere con la violenza, uccidendo una decina di musulmani. In pochi giorni le aggressioni si sono allargate a tutta l’area. Migliaia di case sono state date alle fiamme, visibili addirittura da foto satellitari, come mostrato da un rapporto di Human Rights Watch. Gli scontri a colpi di bastone e machete sono poi stati bloccati dall’intervento dell’esercito. Una calma apparente che è durata fino allo scorso ottobre, quando la violenza è riesplosa, causando, secondo stime ufficiali, quasi duecento morti (sebbene altre organizzazioni indipendenti abbiano parlato di un più alto numero di decessi e feriti).

Vita da apolidi
Violenza e odio in questa zona occidentale della Birmania hanno radici profonde. La regione, al confine con l’attuale Bangladesh, è stata per secoli crocevia di scambi economici e culturali. La presenza musulmana risale all’VIII secolo, quando i primi commercianti arabi si stabilirono nella zona.Furono poi i coloni britannici a favorire e incoraggiare la migrazione di bengalesi nelle terre della Birmania, colonia britannica, legata amministrativamente alla colonia indiana.

Sebbene i rohingya abbiano vissuto in terra birmana da generazioni, sono denigrati, emarginati e considerati immigrati illegali provenienti dal vicino Bangladesh, dal 1947 separato dal resto del Bengala indiano.

Le agenzie delle Nazioni Unite che operano in questa terra di confine stimano che il numero dei rohingya sia poco inferiore al milione di persone. L’ex regime militare birmano e l’attuale governo guidato dal presidente Thein Sein non li hanno mai considerati come cittadini alla pari degli altri, obbligandoli a vivere in una «terra di mezzo» che legalmente non esiste. La vita trascorre in una condizione di prigionia, con l’obbligo di richiedere autorizzazioni speciali per compiere spostamenti fuori dai confini dello Stato Rakhine o per unirsi in matrimonio.

Recentemente le autorità birmane hanno dichiarato che concederanno la cittadinanza a qualsiasi rohingya che «soddisfi i requisiti della legge del 1982 sulla cittadinanza». Riconoscendo, quindi, i nuclei familiari stabilitisi nel Paese prima dell’indipendenza dai britannici: 4 gennaio 1948. Peccato che dimostrarlo sia praticamente impossibile, vista la difficoltà di reperire la documentazione che certifichi un tale requisito.

Considerati stranieri dalla maggioranza dei birmani, ma privi di cittadinanza del Bangladesh dove molti birmani li vorrebbero cacciare, i rohingya sono messi ai margini. Dal giugno dello scorso anno, in migliaia vivono in condizioni estreme sulla costa a pochi chilometri da Sittwe. La maggior parte di essi si trova in campi a rischio di inondazione, vicino al mare o in aree dove un tempo si coltivava riso. Altri vivono in capanne di fortuna ai confini del campo. Solo un sottile strato di paglia separa i bambini dalle fogne a cielo aperto. Alcune Ong si trovano a operare senza permessi in un clima di intolleranza da parte delle autorità locali. E la mancanza di assistenza sanitaria è particolarmente grave.

Tranelli burocratici
Una madre indica il proprio figlio che se ne sta immobile a terra senza abiti. Non può camminare, le sue gambe sono incrociate. Kamal Hussein ha 11 anni: è rimasto paralizzato dopo esser stato calpestato dalla folla in fuga durante gli scontri a Nazi, uno dei villaggi più colpiti dalla violenza tra gruppi etnici. Come lui, in molti sono costretti a dipendere totalmente dagli aiuti umanitari.

Rinchiusi nel campo per rifugiati, ai rohingya non è permesso andare alla ricerca di un lavoro. Un operatore straniero ci racconta dell’ostilità della popolazione locale: «Cercano di bloccare il lavoro di assistenza delle organizzazioni umanitarie e il clima di paura rende difficile per noi che operiamo sul territorio trovare personale. La situazione è molto tesa e negli ultimi tempi ci sono stati diversi incidenti».

Il 26 aprile scorso un gruppo di funzionari si è presentato al campo di Thet Kay Pyin. Con loro c’erano anche alcuni membri delle Forze di sicurezza frontaliere, dette i «Nasaka». Ufficialmente, la missione del gruppo era di compilare una lista che identificasse i luoghi dove le persone avevano vissuto prima delle violenze, precondizione necessaria per il reinsediamento. In pratica, azioni di monitoraggio e controllo. Ma in realtà si richiedeva ai rohingya di identificare se stessi come cittadini del Bangladesh. Firmando tale documento, essi avrebbero confermato la propria condizione di apolidi, compromettendo definitivamente ogni possibilità di vivere legalmente in Myanmar. Secondo alcune testimonianze, in molti si sarebbero rifiutati di firmare decidendo di accerchiare i funzionari governativi che, avvertito il pericolo, avrebbero deciso di andarsene. Nella confusione un poliziotto sarebbe rimasto gravemente ferito. Immediato l’arresto di sei rohingya con l’accusa di «intimidazione e disordini». Da qui l’ordine di trasferimento di alcuni sfollati. Il rifiuto ha provocato l’ennesimo scontro e la morte di tre donne, rimaste uccise sotto i colpi delle forze di sicurezza.

In maggio, dopo la sua visita negli Stati Uniti (la prima di un leader birmano in mezzo secolo), il presidente Thein Sein aveva dichiarato alla televisione che il suo governo si sarebbe impegnato per creare «una società pacifica e armoniosa nello Stato Rakhine». Parole contraddette dagli osservatori internazionali, secondo cui è in atto una campagna di pulizia etnica sostenuta proprio dal governo, tanto applaudito negli ultimi mesi dalla comunità internazionale. Il 16 luglio i Nasaka sono stati sciolti per ordine diretto del presidente, dopo le denunce da parte di attivisti dei diritti umani che hanno parlato di stupri, lavoro forzato ed estorsioni nei campi degli sfollati.

I silenzi del Nobel
Il risentimento antislamico è ormai diffuso in tutto il Paese, alimentato anche dalle parole del monaco buddhista Ashin Wirathu, considerato da alcuni l’ispiratore del movimento estremista 969. Gli attacchi alla comunità musulmana si ripetono in modo quasi sistematico: assalti a moschee e case di famiglie musulmane si sono registrati in varie zone del Paese, raggiungendo addirittura comunità islamiche che vivono alla periferia di Yangon, l’ex capitale birmana e meta di pellegrinaggio per milioni di buddhisti della regione.

Nei primi giorni di settembre anche a Mandalay, la seconda città del Paese, migliaia di manifestanti, tra cui centinaia di monaci, hanno marciato indisturbati per due giorni nelle vie della città al canto di: «Salva la tua patria sostenendo il presidente», riferendosi a una dichiarazione di Thein Sein che, rispondendo all’Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati, António Guterres, si era detto pronto a «espellere tutti i rohingya se ci fosse stato un Paese terzo pronto ad accoglierli».

Anche il Dalai lama, parlando in settembre a Praga in una conferenza sui diritti umani, si è espresso sulla questione, sempre più internazionale, esortando i monaci del Myanmar ad attenersi agli insegnamenti del Buddha e a evitare attacchi violenti alla minoranza musulmana rohingya. «Per essere sicuri di seguire gli insegnamenti dell’Illuminato dovete proteggere i fratelli e le sorelle musulmane che sono, sempre più, vittime di violenza», ha ammonito il capo del governo tibetano in esilio.

In un quadro apparentemente senza soluzioni, un segnale forte della leader dell’opposizione birmana e premio Nobel per la Pace potrebbe aiutare a dirimere il problema. Sinora Aung San Suu Kyi è stata più volte criticata per non aver denunciato in termini più espliciti l’ingiustizia commessa nei confronti dei rohingya. La sua reticenza ne ha offuscato anche la reputazione, soprattutto fra attivisti e sostenitori che confidavano nella sua autorità morale.

Alcuni analisti fanno notare che un eventuale sostegno a coloro che non sono neanche considerati cittadini potrebbe ripercuotersi sul voto del 2015 per il nuovo parlamento. Il rischio politico è quello di perdere i consensi di un elettorato sempre più vicino alle posizioni xenofobe del Movimento 969.

Vincenzo Floramo

© FCSF – Popoli