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Nuova Zelanda, la nazione ovale
23 agosto 2011
Il 9 settembre parte la Coppa del mondo di rugby: nonostante il sisma di pochi mesi fa, tutto è pronto per accogliere quello che è molto più di un evento sportivo. Perché in Nuova Zelanda la palla ovale è anzitutto uno stile di vita e un ingrediente della cultura nazionale.


Quando la Rugby World Cup Limited ha reso noto il calendario dell’edizione 2011 della Webb Ellis Cup, ovvero la Coppa del mondo di rugby, che si disputerà in Nuova Zelanda, il popolo kiwi ha tirato un enorme, collettivo sospiro di sollievo. Infatti, dopo il terremoto che il 22 febbraio ha colpito l’isola, si erano diffusi dubbi sulla possibilità che la competizione si svolgesse regolarmente.
Di fatto, tra le città che dal 9 settembre al 23 ottobre ospiteranno le partite, mancherà all’appello soltanto Christchurch, la seconda del Paese, messa in ginocchio dal sisma e ancora alle prese con una difficile ricostruzione. Ma la Nuova Zelanda vuole andare avanti e lo vuole fare nel segno del rugby.
«Questo progetto - ha affermato il primo ministro John Key - vuole anche servire da segnale forte a tutto il mondo». È insomma la sfida di un’intera nazione, cominciata molto prima del match inaugurale, che vedrà contrapposti i mitici All blacks alle isole Tonga.

A SCUOLA E IN CHIESA
Lealtà e rispetto, dentro e fuori dal campo di gioco: sono gli ingredienti principali di un modello di comportamento da insegnare a tutti, non solo ai futuri campioni. Avviene da almeno due secoli in Nuova Zelanda, un Paese dove il rugby è il gioco più praticato a livello scolastico e riveste un ruolo pedagogico tanto quanto le altre materie.
Ogni sabato, circa 150mila praticanti, grandi e piccoli, calzano le loro scarpette chiodate e iniziano a correre sui campi da rugby, a scuola o nei club, seguiti da una fitta rete di allenatori, insegnanti o genitori, quasi tutti volontari. Sono i club di provincia il fulcro della comunità rugbistica nazionale, al contempo importanti luoghi di socializzazione per gli sportivi e le loro famiglie.
Secondo i dati forniti dalla New Zealand Rugby Union (Nzru), nel 2010 gli iscritti alle liste federali sono aumentati del 4%. La fascia in cui si riscontra il più significativo incremento di praticanti è quella sotto i 13 anni con un +6%, grazie anche ai numerosi progetti federali indirizzati ai più giovani, ad esempio programmi per gli studenti della scuola primaria che permettono una introduzione teorico-pratica a questo sport, senza contatto diretto.
Una disciplina amata nelle scuole, ma anche nelle chiese: per la sua funzione educativa, il rugby è apertamente apprezzato dalla Congregazione anglicana (la confessione cristiana più diffusa in Nuova Zelanda), che vi vede un veicolo di spiritualità e autodisciplina, una palestra per imparare il rispetto per sé e per gli avversari. La violenza, l’offesa e l’esasperazione degli animi non fanno parte dell’etica di questa disciplina, che impedisce di trasformare gli avversari in nemici, il vigore fisico in scorrettezza, l’abilità in frode.
Da sempre, il rugby nell’emisfero australe è inteso come espressione di un collettivo perfettamente integrato, dove è cristianamente assente l’egoismo individualista. Lo scrittore britannico Davis Storey, già giocatore professionista, a proposito del rugby neozelandese sostiene che «è il solo sport per uomini che sia rimasto». Enfasi a parte, è vero che il rugby qui rimane una disciplina genuina, ancora legata come nessun altro sport alla tradizione, alla storia, alla fede e alla cultura in cui è nata.

NON SOLO FOLCLORE
Per tradizione sono da sempre i più bravi: divisa tutta nera, la felce argentata sul petto, i mitici All Blacks sono il dream team, la squadra dei sogni della palla ovale. Per loro il rugby non è solo uno sport o una professione, nemmeno unicamente uno stile di vita, è anche (soprattutto) una forma di arte e di spettacolo.
A rafforzare il mito, poi, contribuiscono i media che sottolineano le suggestioni culturali, antropologiche e religiose. In un’isola in cui convivono passato e presente di un Paese etnicamente meticcio, il rugby assume facilmente i connotati di una disciplina romantica, ancorata alla cultura da cui trae origine la storia di un popolo. Significati riconducibili alle origini dei miti maori, alla storia degli eroi guerrieri del popolo neozelandese e ai riti a cui si affidano gli atleti prima di ogni match.
Dietro a ogni gesto preparatorio c’è una ritualità ancestrale che affonda le radici nella religione degli antenati. Tipica degli All Blacks è la Ka mate, la danza propiziatoria di guerra dei maori, che ha lo scopo di intimorire gli avversari ma che è anche una manifestazione di gioia e di dolore. Il modello oggi conosciuto fu composto nel 1820 da Te Rauparaha, capo della tribù degli Ngāti Toa-rangatira, uno degli ultimi guerrieri maori. «Più di ogni altro aspetto della cultura maori - afferma lo studioso Alan Armstrong nel suo libro Maori Games and Haka -, questa complessa danza è l’espressione della passione, del vigore e dell’identità di un popolo. È un messaggio dell’anima espresso attraverso le parole e gli atteggiamenti».
Il rituale è ormai divenuto celebre in tutto il mondo con il nome di haka (termine più ampio, che comprende vari tipi di danza), e fa parte dello show offerto dalla nazionale neozelandese prima di ogni calcio d’inizio (ma anche da alcune altre squadre dell’Oceano Pacifico). Una cerimonia in effetti impressionante: si roteano e si spalancano gli occhi, si digrignano i denti, si mostra la lingua, ci si batte violentemente il petto e gli avambracci, si dà quindi un saggio di potenza e coraggio, che si ricollega allo spirito guerriero. Forse la psicologia dello sport potrebbe identificare in questa danza tradizionale una tecnica di attivazione mentale ante litteram. Un metodo che, oltre a sottintendere passione, forza e identità, consente di arrivare alla gara in uno stato psicofisico ottimale, dimostrando fiducia in sé, nella squadra e in qualche modo nella nazione che quella squadra sostiene.
Considerando gli aspetti suggestivi e scenografici della haka, molti spot pubblicitari si sono serviti, forse in modo troppo disinvolto, della cultura dei nativi maori a fini promozionali. Nel 2006, ad esempio, la Fiat (che è stata sponsor degli All blacks con il marchio Iveco) lanciò il modello Idea con uno spot in cui donne in tailleur, ventiquattrore e bebè a bordo danzavano un’improbabile haka. Per i diplomatici neozelandesi lo spot era «culturalmente insensibile». Tuttavia, secondo Garry Nicholas, manager della Te Toi Aoteroa, associazione che promuove e tutela l’arte e la cultura maori, nello spot non veniva danzata propriamente una haka, sebbene fosse evidente la radice culturale.
Una disputa che non ha bloccato nuove polemiche. Negli anni successivi, l’idea della Fiat è stata seguita anche da una marca di whisky, la William Lawson: in uno spot trasmesso in Belgio veniva eseguita una haka davanti a un team scozzese, i cui componenti, per tutta risposta, sollevavano il kilt. Anche in questo caso è arrivata la protesta dell’ambasciatore neozelandese. La Philip Morris, invece, si è dovuta scusare con i maori, nell’aprile scorso, per avere stampato le loro immagini sui pacchetti di sigarette in vendita in Israele. E solo qualche mese prima, la Lego aveva perso una costosissima causa con le comunità locali per aver «plagiato» la cultura tradizionale nelle storie legate a una sua linea di giocattoli.

SINDROME DA MONDIALE?
Nello sport, diceva il barone De Coubertin, l’importante è partecipare. Ma questo spirito, che ha fatto del rugby la disciplina dilettantistica per eccellenza, oggi fatica a sopravvivere, almeno quando si parla di un Mondiale. Gli All Blacks, di fatto, sono «condannati» a vincere l’edizione casalinga. Anche perché, nelle ultime cinque edizioni dopo il leggendario 1987, prima edizione della Coppa del mondo e anno della loro unica vittoria, hanno sempre fallito. Per sfortuna e presunzione proprie e per la bravura degli avversari. Ma soprattutto per l’enorme pressione esercitata da stampa, tifosi e da un’intera nazione.
Così le sconfitte neozelandesi diventano veri e propri dramma nazionali. E se nel 1991, eliminati dai rivali australiani, molti giocatori evitarono di tornare in patria con la spedizione federale, rientrando successivamente «in incognito», otto anni più tardi, appena atterrati, si trovarono di fronte l’enorme scritta «Losers» (perdenti) e un’intera nazione precipitò nello sconforto, con psicologi invitati a sollevare il morale collettivo. E non sono rare le irruzioni della politica: alla vigilia dell’ultima rassegna iridata, nel 2007 in Francia, il ministro per le Attività produttive neozelandese espresse timori per il fuso orario che obbligava i lavoratori a stare svegli di notte per seguire le partite dei kiwi. E subito dopo l’ennesima eliminazione, qualche giornalista non trovò nulla di strano nel chiedere all’allora primo ministro neozelandese Helen Clark se la sconfitta avrebbe potuto avere ripercussioni negative sul governo.
Da quattro anni molti sono pronti a scommettere che il prossimo 23 ottobre, all’Eden Park di Auckland, saranno gli All blacks a levare al cielo la Webb Ellis Cup. Sarebbe la fine di un incubo sportivo e il coronamento del sogno di una nazione.
Massimo Ruggero


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