Home page
Webmagazine internazionale dei gesuiti
Cerca negli archivi
La rivista
 
 
 
Pubblicità
Iniziative
Siti amici
Primo piano
Cerca in Primo Piano
 
Obama vs Romney e l’Africa dimenticata
18 ottobre 2012
La campagna per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti è entrata nel vivo. Il presidente Barak Obama e il candidato repubblicano Mitt Romney si sono sfidati su molti temi di politica internazionale: dall’Iraq all’Afghanistan, dal Medio Oriente alla Cina. Poco o nulla è stato detto invece sul rapporto fra Stati Uniti e Africa. Certo si è parlato molto delle Primavere arabe, ma soprattutto in relazione al problema storico del Medio Oriente e della crisi siriana. Sull’Africa subsahariana invece si è registrato il silenzio dei due sfidanti.
Eppure i rapporti tra il continente africano e gli Stati Uniti negli ultimi anni hanno assunto un’importanza crescente non solo in campo economico, ma anche in quello politico-militare. Alcuni dati possono confermarlo. Nel triennio 2008-2010 gli investimenti diretti americani in Africa sono aumentati del 40%. Nell’ultimo decennio poi sono cresciute anche le importazioni statunitensi dall’Africa raggiungendo i 74,2 miliardi di dollari nel 2011 (il 90% dell’import è rappresentato da prodotti petroliferi). Al contempo le esportazioni sono cresciute dai 7 miliardi di dollari nel 2001 ai 21 nel 2011. Anche l’aiuto americano allo sviluppo è lievitato, passando dai 2,1 miliardi di dollari nel 2006 agli 8,1 miliardi nel 2010, scendendo poi nel 2011, a causa della crisi, a 6,9 miliardi.
Dal punto di vista politico, l’Africa rappresenta per Washington un importante scacchiere sul quale combattere la diffusione del fondamentalismo islamico. I fronti caldi sono il Corno d’Africa e la fascia saheliana. In entrambe le aree sono forti le presenze di milizie integraliste. Pensiamo, per esempio, agli shabaab somali o ad Al-Qaeda per il Maghreb Islamico in Algeria e in Mali.
Come ha affrontato queste sfide Barak Obama e come intende affrontarle Mitt Romney qualora fosse eletto?

Obama: sogno e realtà
Nel 2008, quando è stato eletto, Obama ha suscitato notevoli speranze negli africani. Speranza alimentate nel discorso pronunciato l’11 luglio 2009 davanti al parlamento ghanese. All’Africa Obama ha detto che non è più tempo di vittimismo e che il futuro del continente dipende degli stessi africani, in particolare dalle giovani generazioni. Le ferite del colonialismo non si sono ancora rimarginate, ha ammesso Obama, e l’Occidente troppo spesso non tratta il continente come un vero partner; ma le responsabilità del mancato sviluppo dell’Africa sono da ricercare soprattutto nella classe politica corrotta, così come non sono da imputare alle grandi potenze nemmeno la violenza delle guerre o il coinvolgimento di minori nei conflitti africani. Obama ha puntato il dito verso le società dove le regole non vengono fatte rispettare e verso un sistema che blocca gli investimenti stranieri, il cui 20% finirebbe nelle casse dei politici africani. Una denuncia diretta, che non fa nomi ma con riferimenti chiari, a partire dalla crisi economica in Zimbabwe, da imputare alla gestione del presidente Robert Mugabe.
Queste parole sembravano aprire una nuova stagione fatta di collaborazione con gli africani per l’affermazione dei diritti umani e della democrazia. In realtà, al di là della retorica, la politica obamiana negli ultimi quattro anni è stata improntata al più rigoroso pragmatismo. Dal punto di vista economico, gli Usa hanno cercato di stringere, ancora più che nel passato, i rapporti con le nazioni produttrici di petrolio: Nigeria, Ghana, Sud Sudan, Angola, ma anche Kenya, Tanzania Algeria, Guinea equatoriale. Rapporti essenziali per un’economia, come quella americana, assetata di idrocarburi. La stessa attenzione al Corno d’Africa, e alla Somalia in particolare, potrebbe essere letta in chiave economica come la volontà di controllare lo Stretto di Aden, una delle rotte commerciali più importanti a livello mondiale.
Questi interessi economici si intrecciano con la strategia di contenimento del fondamentalismo islamico. L’amministrazione Obama, però, fedele alle promesse della campagna elettorale 2008, non ha promosso campagne militari sullo stile di quelle lanciate da George W. Bush in Iraq e in Afghanistan.
Ha invece creato una fitta rete di basi militari segrete che punteggiano tutto il continente, dalle quali partono le azioni dei droni e delle forze speciali con l’obiettivo di dare la caccia a terroristi islamici e ribelli. Gli esperti la chiamano «guerra ombra». Nei discorsi ufficiali non c’è traccia di queste operazioni segrete che però stanno dando risultati concreti. Il 4 giugno droni americani hanno eliminato in Yemen Abu Yahya al-Libi, il numero due di al-Qaeda. Dalle basi in Etiopia e a Gibuti sono partiti i commandos che hanno aiutato i marines keniani a conquistare Chisimaio, l’importante città portuale somala.

Romney: ritorno al passato?
Se vincesse le elezioni come si comporterebbe in Africa Mitt Romeny? La strategia obamiana verrebbe stravolta? Oppure ci sarebbe una sorta di continuità? Al momento è difficile dirlo. Il programma elettorale è abbastanza vago. «Gli Stati Uniti - si legge - devono guardare all’Africa non come un problema, ma come un’opportunità. (…) La via verso la stabilità e la prosperità del continente passa attraverso un rafforzamento del settore privato dell’economia, nello sviluppo del commercio internazionale e nella buona governance. L’amministrazione Romney lavorerà affinché i governi africani creino un ambiente business friendly e combattano la corruzione». Quindi una generica apertura verso il libero mercato che sarebbe accompagnata da un’azione diplomatica per portare pace e stabilità. «Mitt Romney - si legge ancora nel programma - interverrà per risolvere i conflitti africani, farà pressioni politiche sui despoti che tiranneggiano i cittadini e combatterà i gruppi terroristi che minacciano gli interessi statunitensi». Per raggiungere questi obiettivi Romney cercherà di rafforzare la cooperazione militare e le relazioni diplomatiche con i Paesi amici. Non si sa quindi quale strategia metterà in campo. Se tornerà all’epoca di Bush, con massicci interventi militari, oppure se continuerà la via tracciata da Obama. Lo si scoprirà solo dopo le elezioni. E solo se Romney riuscirà a sconfiggere il rivale.
Enrico Casale
© FCSF – Popoli