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Sinodo MO: pace e libertà di coscienza
26 ottobre 2010
Impegno senza sosta per la pace e libertà di coscienza per tutti, da cui deriva la libertà di vivere fino in fondo la propria fede. Sono i due punti che papa Benedetto XVI ha sottolineato domenica 24 ottobre in Vaticano, nella celebrazione che ha concluso i lavori dell’assemblea speciale del Sinodo per il Medio Oriente. Per la prima volta tutti i patriarchi e i vescovi delle sette Chiese cattoliche presenti nella regione si sono riuniti a Roma per discutere di ogni aspetto della vita dei cristiani in questa parte del mondo dove il messaggio cristiano ha avuto inizio. Domenica si è festeggiata anche la Giornata mondiale missionaria e il tema dell’annuncio, in luoghi dove essere cristiani spesso significa vivere in condizioni di tensione e talvolta di paura, ha così assunto un significato più ricco.  
Nei lavori dell’assemblea, terminati sabato con la presentazione di 44 proposte al papa, molti padri sinodali hanno potuto condividere, non per la prima volta, ma con più forza ed efficacia davanti a tutti, preoccupazioni e proposte. Un esempio: le urgenze pastorali per i nuovi immigrati cattolici asiatici arrivati a lavorare nel mondo arabo (2,5 milioni di persone).
Non si è trattato di un Sinodo del Medio Oriente, ma di un Sinodo della Chiesa universale sul Medio Oriente, che ha rafforzato il senso di appartenenza di queste Chiese di minoranza a una realtà più grande. Preghiere in turco, farsi ed ebraico sono state recitate nella basilica di san Pietro. Ma è soprattutto l’arabo, lingua di milioni di cattolici, ad essere risuonato in Vaticano, espressione di una «nuova Pentecoste».
Il Sinodo non decide, ma è una grande consultazione. Non fa politica, solleva temi che si intrecciano con la politica e con alcune delle questioni più complesse della realtà internazionale, come i rapporti con l’islam, la questione israelo-palestinese, i fenomeni migratori, i diritti umani.
In questa regione le relazioni con l’islam sono realtà quotidiana, condivisione della stessa vita e dello stesso destino. È così da quattordici secoli ed è stato riconosciuto senza atteggiamenti vittimistici, ma incoraggiando le Chiese orientali ad assumersi responsabilità per promuovere il dialogo interreligioso. Un dialogo che diventa anche un servizio alla pace.
I cattolici arabi sono ancora la maggioranza tra i fedeli (e i vescovi) della regione. Da qui un’attenzione speciale al conflitto israelo-palestinese. È stata fatta la richiesta esplicita di applicare le risoluzioni dell’Onu per porre fine all’occupazione. Ma nessuno oggi si sbilancia in previsioni ottimistiche, come ha confermato il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal. Per la città si vuole vedere riconosciuto il suo giusto statuto: santa per ebrei, cristiani e musulmani. C’è un’opposizione chiara del Sinodo a ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie.
I movimenti migratori in uscita sono una vera ferita per le Chiese mediorientali: una perdita non solo per i cristiani, ma per la società intera in quei Paesi dove insicurezza e problemi economici spingono molti ad andarsene. Nel messaggio finale, i padri sinodali hanno chiesto a chi sceglie l’emigrazione di conservare i beni e le terre che ha in patria. «La terra fa parte dell’identità della persona e della sua missione - hanno affermato -: essa è uno spazio vitale per quelli che vi restano e per quelli che un giorno vi ritorneranno». Questo legame con le proprie radici è il filo, a volte sottile, con cui tradizioni teologiche, liturgiche e culturali sono sopravissute come minoranza per secoli. Ma serve uno spirito di solidarietà, per realizzare progetti pratici che aiutino la gente a rimanere, assicurando lavoro, abitazioni, forme di assicurazione sociale e servizi alla salute.
Il tema del rispetto dei diritti umani è trasversale a tutta l’area. Tocca da vicino anche i nuovi immigrati, soprattutto donne, spesso sfruttati ed emarginati nei Paesi del petrolio. Poiché nessun cristiano neo-immigrato è cittadino, si può parlare di una «Chiesa pellegrina», come la definisce mons. Paul Hinder, vicario apostolico d’Arabia. Il Sinodo ha insistito sul tema della laicità positiva, che sa distinguere il piano politico e religioso. Respinge il modello di Stato confessionale, in un’area dove l’islam politico (sunnita e sciita) tende a rafforzarsi. Solo così si può lavorare per la piena cittadinanza, la libertà religiosa e la libertà di coscienza nelle società a maggioranza musulmana. Il Libano, un Paese di minoranze, pur con tutte le sue incertezze politiche, resta un modello possibile.  
Ma oltre a «testimonianza», la parola chiave è stata «comunione», all’interno delle singole Chiese, tra Chiese cattoliche e con tutti i cristiani della regione. Si è riconosciuto che non è stato fatto finora tutto il possibile per vivere al meglio la comunione tra le comunità. La diaspora dei cristiani del Medio Oriente crea questioni nuove su come gestire i legami con i patriarcati di origine, superando i confini territoriali delle giurisdizioni. Un problema concreto è come assicurare un servizio pastorale idoneo, anche mandando preti sposati dal Medio Oriente verso le terre di emigrazione.
Se non c’è collaborazione, vita di fede insieme, si andrebbe verso il collasso per alcune realtà. Ora una questione è come mantenere, approfondire e rafforzare questo ogni tipo di collaborazione che durante il Sinodo ha messo radici.

© FCSF – Popoli