Mons. Giovanni Martinelli è il vescovo di Tripoli. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per chiedergli notizie sulla situazione in Libia.
«Questa mattina, dopo il discorso di Muhammar Gheddafi di ieri sera, la situazione a Tripoli, dove vivo, è tranquilla. Non si notano grandi movimenti nelle strade e nelle piazze. Sono uscito tranquillo in macchina per andare a celebrare la messa in un convento di suore a 10 chilometri dalla città. Non penso che questa tranquillità sia il segno della fine di questa rivolta, anche perché gli incidenti più gravi solitamente si verificano nella notte. Questa mattina comunque sono buone anche le notizie che arrivano dalla Cirenaica, la regione che per prima è stata investita dalla sommossa».
Quali notizie ha da Bengasi e dalla Cirenaica?Ieri e oggi mi sono giunte notizie tranquillizzanti sia da Bengasi sia dalle altre città della Cirenaica. I libici hanno dimostrato di sapere essere solidali tra di loro, ma anche con i religiosi cattolici. Negli ospedali di Bengasi lavorano molte suore (la metà circa è di origine italiana) che vengono aiutate e protette dai colleghi libici. È un aspetto positivo nel cuore degli sconvolgimenti che stanno interessando la regione. A Bengasi e in tutta la Cirenaica le autorità (e in particolare la polizia) sono ormai fuori gioco e non possono più fare assolutamente nulla. Abbiamo chiesto aiuto alla polizia affinché proteggessero la nostra chiesa e i nostri religiosi. Ci hanno risposto che non potevano aiutarci. Abbiamo fatto allora appello alle autorità islamiche e alla Mezzaluna rossa. Qui abbiamo trovato una mano tesa e un aiuto incondizionato. Lo ripeto, questo è positivo.
Qual è la situazione politica in Cirenaica?
Dalle notizie che mi arrivano, posso dire che la situazione si è tranquillizzata. Non ci sono più scontri. Ma mi è stato detto anche che nelle città si sono create delle forme di governo indipendente, che non prendono più ordini da Gheddafi e dai suoi collaboratori.
Teme forti ritorsioni da parte del regime?In Cirenaica non so che cosa il regime possa fare di peggio. La repressione delle manifestazioni è stata violentissima ed è stato sparso moltissimo sangue, anche di innocenti. Quindi non riesco a immaginare quali altri interventi e quale altra violenza possa mettere in campo il regime. In Tripolitania e a Tripoli la situazione è diversa. Qui i manifestanti hanno cercato di attaccare i simboli del potere ma, finora, sono stati respinti.
A suo parere Gheddafi resisterà fino alla fine anche a costo di un bagno di sangue?Conoscendo un po’ il suo carattere, mi sento di dire che Muhammar Gheddafi è un uomo deciso. Dal suo discorso di ieri sera non traspare la voglia di lasciare il Paese in mano ai rivoltosi. C’è in lui un certo orgoglio che gli deriva dalla sua origine beduina, un popolo determinato e orgoglioso. Gheddafi pensa che il Paese sia suo. Ovviamente non è suo, ma va detto che la Libia di oggi è, in gran parte, una sua creatura. Non credo quindi che sarà facile convincerlo a lasciare le redini del potere. Io spero che si trovi una qualche forma di dialogo tra lui e i giovani per trovare una soluzione alle loro rivendicazioni. A questo punto, viste anche come si sono messe le cose, una mediazione è molto difficile. Nulla però va lasciato di intentato. Io busserei alla sua porta e gli chiederei di venire incontro alle esigenze di questi giovani che chiedono solo di poter godere di un avvenire più sereno.
In Italia giungono notizie sulle difficilissime condizioni in cui vivono gli immigrati eritrei ed etiopi. Cosa ci può dire in merito?Le comunità eritrea ed etiope sono molto vicine alla Chiesa cattolica e la Chiesa è molto vicina a loro. Molti di loro sono ortodossi e si riuniscono nella nostra chiesa. Noi cerchiamo di aiutarli anche materialmente offrendo assistenza, cibo, vestiti. Cerchiamo da sempre di aiutarli a fare le pratiche per poter andare in Europa o in America. Sono veramente gli «ultimi» della nostra comunità e noi non vogliamo abbandonarli. A loro non si può dire di tornare in patria perché là rischierebbero di essere torturati o, addirittura, uccisi. L’Italia, per motivi storici e umanitari, dovrebbe curarsi in modo particolare di questi eritrei ed etiopi. Ma finora non è stato fatto molto.
Enrico Casale