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Afghanistan, a volto scoperto
3 dicembre 2012

Dopo la lunga transizione, si avvicina il momento in cui le forze internazionali lasceranno l’Afghanistan. Da Herat, provincia dove l’Italia è impegnata militarmente, alcune testimonianze di donne sul cammino fatto e le molte domande che restano aperte.

Davanti all’ingresso del Dipartimento degli Affari sociali di Herat la gente comincia ad assieparsi dalla mattina presto e si prepara a una lunga attesa. Ci sono soprattutto mamme con bambini piccoli e anziani, composti e fieri nell’abito tradizionale. Quando il portone si apre salgono le scale e ordinati si dispongono in fila dal pianerottolo alla sala d’aspetto del terzo piano. Il rumore dei passi è attutito da enormi tappeti disposti uno vicino all’altro, in ogni ambiente, in uno dei palazzi istituzionali più frequentati da chi, sotto gli occhi vigili della polizia locale, aspetta di ricevere la pensione o il sussidio come parente di una vittima di guerra. Qui donne e uomini vengono anche per cercare lavoro e per richiedere un aiuto in caso di disabilità.
Basira Mohammadi, vestito nero fino alle caviglie e velo verde chiaro, è a capo di questo Dipartimento. Una carriera impegnativa, la sua, soprattutto in un Paese che solo sulla carta ha assimilato la parità dei diritti, più difficile da interiorizzare nella pratica quotidiana. «La vittoria è stata acquisire credibilità agli occhi di chi cerca risposte da parte dello Stato, soprattutto gli uomini più adulti - racconta oggi -, perché spesso gli aiuti non bastano per tutti». Spiega che le persone in attesa, fuori dalla sua porta, aspettano una pensione che nemmeno oggi riceveranno, perché c’è stato l’ennesimo problema con il sistema bancario. «I ritardi capitano - spiega Basira - ma è già un successo riuscire a soddisfare la richiesta di sussidio di 20mila persone, quanti sono oggi i pensionati che abbiamo in carico qui in città».
Il suo ufficio segue anche i disoccupati, soprattutto donne, insieme con quello degli Affari femminili, e gli orfani: bambini e adolescenti che hanno perso i genitori o che li hanno in carcere. Ci sono diverse case-famiglia a Herat e un sistema di welfare che paradossalmente risulta ben sviluppato nelle città afghane, rispetto alle generali condizioni di povertà e insicurezza del Paese. Ma se dopo undici anni dalla fine del regime dei talebani in molti sostengono che finalmente si stia procedendo nella giusta direzione, istituzioni locali, studenti e lavoratori concordano nel dire che il pensiero del 2014, e della fine della missione Isaf (International Security Assistance Force), pone interrogativi nuovi e aggiunge motivi di preoccupazione.

MAGISTRATO CORAGGIO
La procuratrice di Herat, Maria Bashir, sintetizza così un sentire comune in città: «I passi avanti non significano che abbiamo finito il nostro percorso di transizione. Basti pensare al terrorismo che ancora ci affligge - dice - e ai diritti delle donne; anche se non credo che si possa tornare indietro, dopo quello che abbiamo vissuto con i talebani, non siamo ancora pronti a camminare solo sulle nostre gambe».
Giudice imparziale che ha dedicato la sua vita al lavoro, Maria vive costantemente sotto minaccia, e la sua famiglia si è trasferita all’estero, per evitare ritorsioni. Il suo esempio è un segnale del cambiamento che vive il Paese: nuove possibilità per le donne, ma a un prezzo troppo alto per poter parlare di vera emancipazione.
Non è un caso dunque se gli appelli delle neonate istituzioni siano tutti per continuare la collaborazione con la comunità internazionale che, dal canto suo, non ha ancora precisato come si chiuderà la transizione. Due anni e mezzo fa, nell’aprile 2010, i ministri degli Esteri dei Paesi della Nato, riuniti a Lisbona, avevano stilato una tabella di marcia per il ritiro dall’Afghanistan. Il 20 luglio dello stesso anno, con la Conferenza di Kabul, è stato stabilito il definitivo passaggio di consegne alle forze locali entro la fine del 2014, impegno riconfermato quest’anno nell’incontro di Chicago del 20 maggio. Eppure, come è stato ribadito, non ci sarà un vero e proprio «ritiro», ma un graduale cambiamento di ruolo delle forze internazionali, che continueranno a mantenere una presenza sul territorio.
Fuori dallo «scudo», la zona dei palazzi governativi chiamata così per la caratteristica forma, Herat è un crogiolo di vite, traffico, povertà che si intrecciano e si mescolano, dove le macchine quasi sempre cedono il passo agli autorisciò, dipinti a colori vivaci e decorati con disegni e ornamenti applicati lungo le fiancate, oppure ai motorini, alla gente a piedi con piccoli carretti di frutta o con il gregge al seguito. Le zone di mercato sono numerose e ognuno arriva con la sua merce trainata da un asino, oppure caricata su una carriola o su un furgoncino per i più attrezzati.
Le donne si muovono veloci con in mano secchi di plastica e borse: alcune indossano il burqa azzurro, altre, la maggior parte, il khimar, un lungo telo nero o con stampe fantasia, ma sempre dai colori scuri, che copre il capo e il corpo, e che all’occorrenza può essere avvicinato al viso, lasciando scoperti solo gli occhi. Anche le studentesse e le insegnanti lo indossano, all’università, per muoversi da un padiglione all’altro delle diverse facoltà, recentemente ristrutturati e dipinti ognuno con un colore pastello. Ormai gli iscritti sono arrivati a 11mila e le ragazze sono in continuo aumento. Uomini e donne siedono in aula in file separate, evitando di incrociarsi.

UNA RADIO AL FEMMINILE
Larisha ha 22 anni e, oltre a studiare legge, collabora con un’agenzia di stampa locale, dove lavora fianco a fianco con un collega. Anche lei spera in un Paese pacificato nel giro di poco tempo, ma come altri giovani ha paura di quello che potrebbe accadere dopo il 2014. «Saremo pronti? Il sistema creato in questi anni potrà reggere?». La sua famiglia abitava a Mazar’i Sharif e si è trasferita ad Herat da poco. «Questa è una città più moderna e studiare o lavorare è più semplice». Insieme alla voglia di fare carriera, che i genitori non hanno mai ostacolato, Larisha ha anche una paura che l’accompagna dall’adolescenza: «Il giorno in cui una giovane si sposa, la sua vita cambia per sempre - racconta -. È come se all’improvviso venisse soffocata».
Mentre parla le sue mani stringono la borsa, come se mimasse uno strangolamento. «Anche in città sono le famiglie che decidono il futuro dei figli. Quella dell’uomo va in visita da quella della donna e insieme decidono il da farsi. Se l’accordo arriva viene suggellato con una festa, ma la coppia non potrà conoscersi fino alle nozze».
Larisha spera di diventare una giornalista affermata prima che questo le succeda. Il mondo dell’informazione è diventato molto ambito tra i giovani afghani nelle città, grazie a un dibattito politico, anche di carattere internazionale, che comincia a crescere. Gli eventi pubblici a cui partecipano le istituzioni, che si tratti di conferenze stampa, inaugurazioni ufficiali o appuntamenti accademici, sono seguiti da operatori di televisioni locali, web, carta stampata e da fotografi.
Circa due mesi fa a Herat è nata la prima emittente cittadina di sole donne, Radio Sharzat, dal nome della protagonista delle Mille e una notte, grazie all’impegno delle giovani professioniste e ai fondi di un imprenditore locale trentacinquenne che ha creduto nell’impresa. «Fino a poco tempo fa - racconta la direttrice, Somia Ramish - ci si laureava in giornalismo e poi al massimo si poteva aspirare all’insegnamento. Oggi non è più così e la soddisfazione più grande sono le persone che ci chiamano da casa e che vogliono condividere con noi esperienze, ma anche opinioni politiche». Le trasmissioni vanno in onda dalle otto del mattino alle dieci di sera, e in questi due anni che separano il Paese dalle prossime elezioni la radio punta a strutturare un palinsesto sempre più autorevole e ad ampliare il segnale almeno a tutta la provincia.
Una delle caratteristiche dell’Afghanistan, però, continua a essere la distanza fra i centri urbani e le zone rurali, impervie, dove sorgono piccoli villaggi e dove la gente vive isolata e lontana da qualsiasi forma di progresso. Qui l’economia è legata alla pratica di un’agricoltura fatta con mezzi tradizionali, come l’aratro a mano, e alla pastorizia. Non ci sono strade né corrente elettrica e l’unica autorità riconosciuta è quella del capo villaggio, al quale spetta l’ultima parola in una qualsiasi controversia o decisione da prendere. In luoghi così lontani anche solo dall’idea di istituzioni condivise e Stato nazionale, può ancora capitare che le donne siano usate come pegno da offrire per riparare a un’offesa e ristabilire armonia fra due famiglie.
I timori per il futuro del Paese sono ben riassunti in alcune delle risposte che 122 cittadini afghani hanno fornito durante un’intervista realizzata da tre istituti internazionali di ricerca, i norvegesi Peace Research Institute di Oslo e Chr. Michelsen Institute di Bergen, e lo United States Institute of Peace di Washington. Interrogati sull’andamento e gli sviluppi del processo di pace, leader politici, membri della società civile, militari, si sono espressi sulla necessità di far sedere al tavolo della negoziazione molte più realtà di quelle coinvolte finora. Come racconta un editore «non si può trascurare che soltanto fra i cosiddetti talebani vi siano almeno sei differenti gruppi sociali, senza contare gli attori esterni ma di grande influenza, come il Pakistan o l’Iran».
In quest’ottica, considerati anche i fenomeni di corruzione, e la produzione dell’oppio che soprattutto nel Sud-Est del Paese continua a essere la principale fonte di reddito e di contesa per i signori della guerra locali, il passaggio di consegne dalla Nato agli afghani chiuderà forse la transizione militare, ma non quel percorso di unità e pace sociale appena agli inizi.

Ilaria Romano
© FCSF – Popoli