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Carlo Maria Martini e un'amicizia possibile
23 luglio 2013
Riportiamo un brano tratto da Vita del cardinal Martini. Il bosco e il mendicante (San Paolo, pp. 264, euro 15), nelle librerie a fine luglio. Una biografia scandita al ritmo di una «parabola» che Martini stesso indicò, un giorno, come riferimento per la lettura della sua e altrui vicenda personale.


Martini ribadì
più volte l’urgenza di un dialogo interreligioso. Per lui, nel dialogo l’accettazione dell’altro non era sufficiente. Bisognava portare più avanti l’orizzonte. Non si doveva soltanto essere tolleranti (tu pensi a te stesso, io a me e non ci diamo fastidio...): «Dobbiamo essere, in qualche modo, seminatori di vita».
Secondo il Cardinale, gli esponenti delle altre religioni non dovevano lasciarsi bloccare dal fatto che il Discorso della Montagna si trovasse nel Vangelo. I capitoli di Matteo potevano diventare un buon punto di partenza comune. Un discorso non clericale ma laico: con indicazioni per tutti, come il non attaccamento al denaro, il non cercare di fare le cose per essere ammirati dagli uomini, e il fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi.
Martini considerava il Discorso della Montagna come una summa di tutta la sapienza ebraica, con uno specifico cristiano, ma senza una connotazione di confessionalità.

Tutte le religioni
comprendono ciò. Ma per viverlo ci vuole un vero cambiamento del cuore. Ogni religione deve riformarsi a partire dalla sua autenticità. Bisogna che ci siano persone autenticamente religiose, cioè: con una conversione morale, con una conversione intellettuale e una conversione prettamente religiosa (mettere Dio al sopra di ogni cosa). Mettersi di fronte allo specchio, guardarsi e trovare le proprie pecche (cfr. intervista di Alain Elkann con il cardinale Martini rilanciata su La7 alla sua morte).

Il cardinal Martini
rifletteva costantemente circa la promozione di una conoscenza teologicamente più profonda tra i fedeli delle religioni. E di due religioni in particolare: il cristianesimo e l’ebraismo. Martini ricordava inoltre come la svolta rappresentata dal Concilio Vaticano II (con l’abbandono dell’accusa di deicidio) avesse mutato quella situazione, grazie anche ai tanti gruppi nati per promuovere il dialogo. «Non è stato un movimento in una sola direzione: ho avuto occasione di entrare in contatto con molti fratelli ebrei e debbo dire che anche in essi c’è una spinta a dialogare con i cristiani. L’incontro però con i nostri fratelli maggiori deve tener conto che essi vengono da una via durissima, che ha le sue origini nei primi secoli della Chiesa e che ha avuto il suo culmine nella Shoah» (cfr G. Bernardelli, Cardinale Martini: «Impariamo ad amare di più Israele», La Stampa, 9 novembre 2011).

Giuseppe Laras
(rabbino capo di Milano dal 1980 al 2005) e il cardinal Martini fecero un lungo tratto di strada insieme, mostrando un’amicizia possibile e credibile. (...) Laras condivideva con Martini la convinzione che l’obiettivo, l’orizzonte del dialogo, non era la conversione dell’altro, o la disputa teologica, ma il tornare a riconoscersi come fratelli.

Quando arrivò a Milano
come Arcivescovo, Martini si trovò subito d’accordo con Laras nel dare nuovo impulso al dialogo. Già nei primi anni Ottanta Martini aveva avviato un gruppo di studio che venne chiamato Teshuvà (ritorno). All’incontro di inaugurazione, in una sala piena di gente, Martini e Laras commentarono l’Ascolta Israele: Giuseppe Laras nel quadro del Deuteronomio, Martini a partire dal Vangelo di Marco. Fu un incontro bellissimo, come lo furono poi le annuali Giornate per l’ebraismo.

Laras e Martini
erano entrambi torinesi, e ciò aiutò non poco la loro sintonia e il loro confronto, nonostante il Cardinale mantenesse tutta la sua austerità e la sua apparente timidezza.
Martini era concentrato più sulle dimensioni etiche e sociali del dialogo, che su quelle teologiche: ma Laras riconosceva di trovarsi di fronte a un uomo di grande fede. «Il Cardinale non parlava di incontro, ma di re-incontro. Come a dire: veniamo dalla stessa radice, la storia ci ha divisi, ma siamo destinati a riavvicinarci. E quando il Signore vorrà, capiremo finalmente quello che ci resta ancora oscuro» (cfr intervista a Giuseppe Laras a cura di Lorenzo Rosoli in Avvenire del 5 settembre 2012).

Secondo il Cardinale
i cristiani dovevano imparare a conoscere non soltanto il Nuovo Testamento, ma anche i testi del Primo Testamento, sapendoli interpretare alla luce del Vangelo.
Inoltre bisognava attivarsi per una conoscenza dell’ebraismo post-biblico, che mancava quasi del tutto nella Chiesa cattolica. Era necessario, per lui, allargare i propri orizzonti all’intera storia, alle consuetudini, ai talenti artistici, scientifici, letterari, musicali del popolo ebraico. Occorreva, in sintesi, stimare e amare quel popolo.
Poiché non basta un semplice anti-antisemitismo.
Enrico Impalà


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