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Ciò che non è donato è perso: l'eredità di Pierre Ceyrac
30/01/2014

Il 4 febbraio di 100 anni fa nasceva in Francia Pierre Ceyrac. Partito nel 1936 come missionario gesuita in India, vi restò fino alla morte (all’età di 98 anni), con due parentesi nel Sud-Est asiatico e in Africa. Sempre dalla parte dei poveri e nel segno della gratuità. L'articolo uscito sul numero di gennaio di Popoli.


«Al tramonto della mia lunga vita, dopo tante traversie e tante lotte, a me stesso dico che, se sono riuscito a salvare almeno uno di questi bambini che ho incrociato sulla strada, non l’avrò sprecata». I bambini di cui si parla sono indiani, orfani o abbandonati, e chi scrive è il padre Pierre Ceyrac. Questo missionario gesuita avrebbe compiuto 100 anni il prossimo 4 febbraio, ma è tornato alla casa del Padre due anni fa. Il suo motto era tratto da un proverbio sanscrito: «Tutto ciò che non è donato è perso».

Certamente Ceyrac non ha sprecato la sua lunga vita: non si è perso in derive banali, perché ha fatto di essa un dono incondizionato alle migliaia di persone che ha incontrato. Per lui, la vicenda di ognuna di queste persone è sempre stata una storia sacra: unica, irripetibile e preziosa. L’editore Jaca Book ha pubblicato, tra il 2004 e il 2009, quattro testi nei quali Ceyrac racconta qualcosa della sua esperienza. Uno ha il titolo del proverbio sopra citato. In esso il gesuita scrive: «Ho vissuto un’avventura immensa, e per questo sono colmo di gratitudine. Ho incontrato persone fuori dal comune, grandi santi, come Madre Teresa, o illustri personaggi, come il Mahatma Gandhi. Ho incontrato gente molto famosa, fino ai più piccoli e agli ultimi, persone di strada, che sono straordinarie e di cui si parla poco. Ma sono davvero loro che costituiscono l’ordito delle nostre vite, che ne imprimono la filigrana».

OGNI 15 ANNI
Nato in una famiglia borghese della Francia centrale, Pierre ha riconosciuto la chiamata alla vita religiosa fin da giovanissimo. Arrivò in India nel 1936, quando era un ventiduenne studente gesuita. A questo «mistero di incontenibile bellezza» dedicò tutte le sue risorse umane e spirituali. Risorse e capacità decisamente straordinarie, come attestano le realizzazioni che ha compiuto.

Scrivendo di sé, quando aveva ormai 80 anni, così si riassume: «La mia vita di gesuita si è svolta per fasi di quindici anni ciascuna. Quindici anni di scolasticato e di profonda immersione nella cultura indiana, sia nel Paese tamil (vi ho preso una laurea in tamil e in sanscrito), sia di fronte ai monti dell’Himalaya a Kurseong (per studiare le Upanishad e il Vedanta). Quindici anni come cappellano di alcune università dell’India. Quindici anni negli slum di Madras e di sviluppo rurale nel Tamil Nadu (Manamadurai, l’operazione Mille pozzi, ecc.). E, infine, quindici anni a servizio dei rifugiati, nei campi della Thailandia e della Cambogia, e in quelli di Meheba, in Zambia». Dal 1994 era iniziato un nuovo ciclo, sempre in India meridionale, al servizio degli orfani e dei dalit, ciclo conclusosi il 30 maggio 2012 a Madras.

Degli anni trascorsi a servizio dei rifugiati cambogiani parla come di una delle esperienze più profonde e sconvolgenti della sua vita, la cui ferita non lo abbandonerà mai. «Abbiamo toccato con mano quanto di più profondo c’è nella miseria umana». Tuttavia, questo trauma rafforzerà in lui la già notevole tenacia e intelligenza apostolica. «Avevo conosciuto tutta la miseria degli slum di Calcutta o di Bombay. Ma - scrive nel 1998 in Pellegrino alle frontiere - credo non ci sia nulla di paragonabile alla miseria dei rifugiati. Sono persone sradicate, strappate e gettate via, come alberi che vengono sradicati e piantati altrove. I rifugiati credono di essere finalmente usciti dall’inferno, ma in realtà questa miseria si accanisce contro di loro anche nei campi, e li insegue persino nei Paesi occidentali che li ospitano». Ma, prosegue citando un sacerdote canadese che lo stava aiutando, «per noi, non è un dovere accogliere i rifugiati: è un privilegio».

Già, père Ceyrac ha vissuto nella consapevolezza di essere un privilegiato, perché ha capito come vivere un’esistenza sensata e realizzata: mettendo in pratica il proverbio sanscrito ormai famoso. Del resto, è quello che dice Gesù inviando i dodici discepoli in missione: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10, 8).

OLTRE LA FILANTROPIA
Donare è un particolare modo di abitare il mondo e di strutturare le proprie relazioni. È uno stile di vita molto esigente e rigoroso, che si chiama appunto «gratuità». Colui che dona non si aspetta nessun esito. Non solo non vuole riconoscimento che lo gratifichi, ma addirittura non si aspetta che quanto ha fatto abbia un risultato. Non vuole sentirsi dire «Grazie!», tuttavia fa quello che occorre fare, al massimo delle proprie possibilità.

Perché si fa un dono a qualcuno? Perché si vuole il bene di quella persona. Ciò può essere comprensibile tra persone che hanno una reciproca relazione. Ma come si fa a voler bene agli estranei che si incontrano? Si tratta di filantropia, ovvero di benevolenza per l’umanità? La storia di quanto gli uomini hanno fatto dice decisamente di no. Occorre una motivazione più forte. Possiamo trovare una ragione della capacità di donare nell’esperienza dell’essere amati da Dio. Poiché si fa l’esperienza di essere gratuitamente e incondizionatamente ben-voluti, cioè di essere i destinatari di un dono, allora si attiva questa stessa disponibilità.

È quanto insegnano anche gli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola che, da gesuita, padre Ceyrac ben conosceva. In conseguenza della gratuità sperimentata, ovvero dei benefici ricevuti gratis, si attiva un modo di vivere gratuito.
In questo senso lui amava definirsi un «pellegrino alle frontiere». Pellegrino è uno che non si impianta definitivamente da nessuna parte, ma che è sempre disponibile ad andare incontro a coloro che il Signore manda sulla propria strada. Alle frontiere. Sono sempre gli uomini a demarcarle: sia quelle geografiche sia quelle, ben più rigide e invalicabili, delle discriminazioni. Nessun essere umano nasce inferiore o intoccabile, ma viene reso tale dalla estromissione inflitta da altri esseri umani. Sono le frontiere a dire l’umana miseria.

Occorre non lasciarsi spaventare, perché Gesù è risorto. Alla fine del primo capitolo del suo Le mie radici sono in cielo, Pierre Ceyrac riporta queste parole di un Inno tratto dalla liturgia delle ore nella commemorazione dei martiri: «Se la speranza ti ha fatto arrivare più lontano della paura, avrai gli occhi alzati. E potrai arrivare fino al sole di Dio».

Prendersi cura dell’uomo, sull’esempio del Signore Gesù, diceva padre Ceyrac, è entrare in questa malvagità con gratuità, coraggio e disponibilità.

Davide Magni SJ

© FCSF – Popoli