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Egitto nel caos
3 luglio 2013
L’Egitto sta vivendo una nuova crisi politico-istituzionale che rischia di trascinarla in una guerra civile. Le manifestazioni organizzate dal movimento Tamaruud, che chiedono le dimissioni del presidente Mohammed Morsi, hanno portato in piazza milioni di persone non soltanto al Cairo, ad Alessandria, ma anche in centri minori. Allo stesso tempo il Capo dello Stato, sostenuto dai Fratelli musulmani (di cui è un esponente), ha annunciato che non lascerà il suo posto e che è disposto a morire per difendere le sue prerogative. In questo contesto sono ritornate in campo le forze armate che hanno lanciato un ultimatum di 48 ore al Presidente chiedendogli di venire incontro alle esigenze dei manifestanti. La situazione in queste ore si è fatta tesa. Come leggere questa crisi? Popoli.info ne ha parlato con Eugenio Dacrema, ricercatore in Relazioni internazionali ed esperto di Medio oriente.

Che cos’è il movimento Tamaruud? Chi l’ha fondato?
In arabo il termine significa letteralmente «disobbedienza», ma molti lo traducono con «ribellione». È un’organizzazione nata dal basso, in modo informale, per iniziativa di cinque o sei ragazzi della borghesia medio-alta e cresciuta grazie a Internet (Facebook, Twitter, ecc.). Il successo è legato ad alcuni fattori: il nome, che è semplice e intuitivo; un simbolo altrettanto semplice; una piattaforma minima (dimissioni di Mohammed Morsi ed elezioni anticipate). Il movimento non ha un programma alternativo a quello di Morsi e dei Fratelli musulmani. L’unico obiettivo è la caduta del Presidente. È questa la ragione principale del successo di Tamaruud, il motivo per il quale ha raccolto tanto consenso intorno a sé. La gente è divisa su chi dovrebbe sostituire Morsi, ma la maggioranza vuole le dimissioni del Presidente.

L’affermazione di Tamaruud sancisce la sconfitta dei Fratelli musulmani?
La Fratellanza ha una rete capillare che le garantisce grandi riserve di consenso (soprattutto nelle campagne). Ha uno zoccolo duro, ma la maggioranza degli egiziani l’ha votata nelle elezioni legislative e presidenziali perché rispettava il movimento. Lo rispettava perché era l’unica organizzazione che aveva fatto una reale opposizione al regime di Hosni Mubarak. In più il loro messaggio religioso dava un senso all’attività politica che in passato in Egitto era stata monopolizzata dalla dittatura. Oggi non c’è più il rispetto originale. La popolazione oggi vede la Fratellanza come una riedizione del regime di Mubarak. Il messaggio religioso poi non fa più presa. Gli egiziani continuano a sentir parlare di Dio, ma poi devono fare i conti con politici, magari onesti, ma impreparati a governare una crisi economica che sta impoverendo il Paese.

Le forze armate sono tornate in campo prepotentemente. Come si può leggere questo nuovo protagonismo?
Inizialmente l’ultimatum di 48 ore per raggiungere un’intesa tra manifestanti e governo è stato letto come una sorta di stimolo a trovare un accordo tra le parti. Poi, con il passare delle ore, i generali hanno dimostrato di essere sempre più dalla parte dei manifestanti. Nelle forze armate, che finora hanno collaborato con i Fratelli musulmani, c’è un tentativo di dirottare il malcontento che serpeggia tra gli egiziani verso la classe politica. I militari prenderanno il potere in prima persona? Non penso vogliano assumersi di nuovo la responsabilità di governare come nel 2011 quando avevano messo al comando del Paese il maresciallo Tantawi. È più facile che impongano una road map verso nuove elezioni.

Gli Stati Uniti quale ruolo possono giocare in questa crisi?
Washington vuole un Egitto stabile e, soprattutto, un interlocutore serio. L’amministrazione Obama si è schierata a favore dei Fratelli musulmani che hanno saputo trattare con Israele nella crisi di Gaza e non hanno creato problemi con i trattati di pace. Credo che sosterranno Morsi chiedendogli di venire incontro ai manifestanti. Se lo farà e se tornerà la stabilità, gli Usa continueranno a sostenerlo. Altrimenti troveranno nuovi partner.
Enrico Casale
© FCSF – Popoli