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Esodo siriano
28 novembre 2013
La Giordania (sei milioni di abitanti) sta ospitando più di 500mila siriani fuggiti oltre confine. Minori non accompagnati, giovani donne che subiscono violenze e palestinesi rifugiati due volte sono le componenti più vulnerabili. Un reportage tratto dal numero di dicembre di Popoli e - in fondo a questo testo - il link per scaricare una mappa su come aiutare dall’Italia i due milioni di sfollati per la guerra.


A Camp Hussein
, uno dei quartieri palestinesi di Amman, di fronte a una macchina fotografica nessuno grida «surina!», facci una foto. Nemmeno i bambini. Fatma, 15 anni, da Daraa, se ne guarda bene e allontana anche i compagni più piccoli. Perché in quasi due anni di conflitto, la paura e il fastidio di essere riconosciuti come rifugiati siriani si sono aggiunti all’orrore della guerra, alla fame, alla fatica di viaggi senza speranza. Perché a questa tragedia, che ha già fatto 2 milioni di profughi di cui, secondo Acnur e Unicef, la metà sono minori e almeno 740mila bambini con meno di undici anni di età, si aggiunge la riprovazione sociale, l’emarginazione, la consapevolezza di essere corpi estranei oltre confine. Di essere peggiori dei rifugiati palestinesi.

Qui in Giordania, la condizione dei rifugiati oscilla tra due estremi: la visibilità nei campi e l’invisibilità tra le famiglie che hanno aderito al programma di accoglienza della prima ondata migratoria. Ma nessuna delle due condizioni ha vantaggi maggiori dell’altra.

Il campo di Zaatari, al confine settentrionale, nell’area di Mafrak, oggi diventato il più grande centro di rifugiati nel Medio Oriente con più di 144mila presenze stimate (a fronte di un capacità di 60mila), è fortemente mediatizzato. In un anno, dopo la sua nascita nel luglio 2012, sono aumentati i sistemi di cash for work per i maschi adulti, i servizi scolastici per i bambini, il numero di toilette, la capacità di pompaggio dell’acqua. Ma i rifugiati sono tanti.
Michele Servadei, di Unicef, lo dice chiaramente: «La necessità di fornire ai bambini anche l’istruzione è prioritaria, considerato che il lavoro minorile è diffusissimo e molti dei bambini hanno fatto queste esperienze già in Siria. In più arrivano da soli, non accompagnati dai genitori: sempre sotto choc, a volte feriti».
Come Abdel, che ha meno di dieci anni. Viene da Daraa, come la maggior parte dei rifugiati di Zaatari, non sa dove siano finiti i suoi fratelli e non metteva in conto di tornare a scuola finché l’Unicef non ne ha creata una nel campo: «Finora ho sempre dato una mano a portare acqua e spazzatura - racconta -. Per il resto mi annoio e gioco alla lotta con i miei compagni».

Per creare a Zaatari un ambiente il meno violento possibile, da gennaio tremila uomini adulti sono stati impiegati nel settore delle pulizie e 300 alla guida di camion per il trasporto di acqua e immondizia. Si cerca di reinnestare nei bambini la fiducia nell’altro e favorire la pratica di sport non violenti. Ma non è facile.
Fida Hueida è un’educatrice: giordana di origine palestinese, è impegnata da anni nei centri affiliati alla Jordan Women Union (Jwu). «Questi bambini - ci spiega - sono passati dalla condizione di profughi di guerra, quando non fossero già partecipanti passivi degli scontri a fuoco, a quella di social workers. Anche quando sono riusciti a uscire dai campi e si sono inseriti in famiglie siriane trasferitesi in Giordania prima della guerra, non hanno più frequentato le scuole: hanno fatto i commessi, i garzoni o lavori di fatica».

L’IMPATTO IN GIORDANIA
Un problema
è anche l’impatto con la società giordana. I venti centri di raccolta della Jwu sparsi in tutto il Paese, grazie al sostegno di donatori privati e di alcune agenzie dell’Onu, affrontano l’emarginazione sociale in due modi, continua Fida Hueida: «In primo luogo aiutando i bambini ad affrontare un percorso di resilienza, attraverso il disegno; immettendoli poi in un contesto di gioco e condivisione tra coetanei, non solo siriani, ma anche giordani e palestinesi».
Riham, madre di quattro figli, è abbastanza contenta di questa soluzione: «I miei figli sono vittime di bullismo perché siriani, ma da quando frequentano questi centri si sanno difendere senza arrivare alle mani». A Camp Hussein, alle pareti dell’abitazione, sono appesi i disegni dei bambini in progressione temporale: i carri armati non mancano mai, ma in compenso l’immagine della figura umana, nei primi solo un tronco senza gambe e braccia, negli ultimi lascia intravedere un viso, un vestito, un sorriso.

Fatma, però, non sorride mai. Non è dato conoscere la sua storia, ma le ragazze adolescenti sono le persone con maggiori difficoltà di inserimento sociale: se non vivono più nei campi, si chiudono in casa, non escono, hanno paura delle molestie sessuali.

LA VIOLENZA SULLE DONNE
Nadia Shamrouk è la responsabile della Jwu. Impegnata da molti anni nella difesa di donne vittime di violenza sessuale e domestica e in favore di una riforma del Codice di famiglia giordano, dirige il primo rifugio antiviolenza del mondo arabo. «L’ondata di rifugiati e la promiscuità delle condizioni di vita hanno favorito i casi di violenza di genere giustificati dal matrimonio - ci spiega -. In ogni caso, la fascia d’età più a rischio di violenze è quella fra i 18 e i 25 anni, anche se le molestie occasionali vengono perpetrate in maggior numero sulle bambine di 12 anni».

La preoccupazione che «quello» possa accadere proprio a lei, è visibile sul volto di Rania e ancora di più della madre Aisha. Vivono a Cyber City, il campo più negletto e blindato della Giordania, a sud di Mafrak, nel governatorato di Irbid, non distante da Zaatari. È il campo meno visibile di tutto il Paese perché collocato all’interno di un’ex area commerciale: non ci sono tende, cisterne per l’acqua o i servizi igienici. Non si vedono giornalisti né agenzie internazionali. E gli «ospiti» sono siriano-palestinesi. Vale a dire, rifugiati due volte. Il palazzo ha sei piani. Con una famiglia per stanza, ospita duecento famiglie, 417 persone. Aisha mostra la cucina e le latrine comuni. Non nasconde la sua preoccupazione: «Viviamo in una condizione di grande promiscuità. Ho paura per mia figlia e cerco di non lasciarla mai sola».

Il marito, Abu Mohammad Jihad, misura i giorni e tiene anche il conto e i nomi dei rifugiati «ospiti». «Sono una specie di amministratore di condominio». Cammina con le stampelle ed è mutilato di un piede: «Normale amministrazione per chi arriva dalle mie parti». Daraa, Qasim, Imtan. La sua storia non è troppo diversa da quella di altri rifugiati incontrati nel vecchio campo di Ramtha o nella tendopoli di Zaatari. Ma diversa è l’origine della sua storia, perché ha vissuto una prima diaspora dalla Palestina nel 1976. Che, tradotto, significa un primo status di rifugiato. «Mi ero stabilito a Daraa e tutto andava abbastanza bene. Avevo altri due fratelli: uno è stato ucciso il 22 giugno 2011, il secondo il 25 settembre successivo. Cosa avrei dovuto fare? Ho preso il fucile e mi sono difeso dai governativi. Quando il 25 luglio di un anno fa la casa di famiglia è stata attaccata e bruciata ho capito che era meglio andarsene».

Come sia riuscito a trasferire la famiglia da Daraa fino al confine giordano, non vuole dirlo. Rammenta solo il giorno, il 29 luglio 2012, e l’ora in cui è entrato in Giordania: le sette di sera. «Per fortuna non abbiamo incontrato nessun check point».

Nonostante la menomazione, Abu Mohammad è il più combattivo tra tutti i rifugiati di Cyber City e gode di un rispetto unanime. «Non torneremo in Siria, non torneremo in Palestina, ma non possiamo vivere in Giordania senza un minimo di diritti. L’unica destino per i palestinesi è vivere in un recinto qui e ovunque. Essere siriani-palestinesi a Cyber City significa essere rifugiati due volte e nel peggior modo possibile. Ma cosa fa la comunità internazionale? Forse non sa nemmeno che esistiamo». In questo mondo di persone senza diritti, terra e identità, per Abu Mohammad e gli altri 416 disgraziati di Cyber City, non c’è posto nemmeno dentro un inferno di serie B.
Laura Silvia Battaglia


Scarica l' infografica su come aiutare i siriani ancora in patria o fuggiti all'estero:
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