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Siriani in Europa, divieto d'accesso
21/03/2014

Davanti al disastro siriano il Vecchio continente unisce inefficacia della diplomazia e indifferenza verso migliaia di persone che fuggono dal conflitto e che cercano accoglienza, soprattutto nel Nord. Il racconto di un tradimento nel reportage pubblicato sul numero di marzo di Popoli.

 

Anas versa con destrezza il tè profumato alla menta facendolo gorgogliare dalla teiera a due spanne da terra. Le tazze sono per gli ospiti mentre i barattoli di vetro sono per i padroni di casa: Anas Yusef, piccolo imprenditore edile di Damasco e la figlia Mariam, 27 anni, insegnante d’inglese. Anche quando si vive in un container all’interno di un campo profughi le leggi dell’ospitalità sono sacre. «A luglio abbiamo deciso di lasciare la Siria perché le condizioni stavano diventando insostenibili», spiega Mariam. Con voce pacata e un accenno di sorriso racconta l’odissea della sua famiglia: le bombe, la fuga da Damasco, il passaggio del confine tra Siria e Turchia, il lungo viaggio fino alla Bulgaria. Si sono fermati qui, nel Paese più povero d’Europa. Che nel 2013 è diventato una delle principali porte d’accesso all’Europa per chi scappa dal regime di Bashar al Assad e dalle violenze delle milizie islamiche.

La famiglia Yusef sperava in un'Europa accogliente dove costruirsi una nuova vita. Ma le loro speranze si sono infrante in pochi giorni: appena varcato il confine, Mariam e famiglia vengono fermati dalla polizia di frontiera bulgara e rinchiusi in un campo di pallacanestro trasformato in prigione: «Eravamo in tanti, almeno trecento persone - ricorda -. Hanno messo noi siriani da una parte e dall’altra tutti gli altri stranieri. Siamo rimasti lì per sette giorni, con pochissimo cibo».

Per tutta l’estate e l’autunno 2013, lungo il confine tra Turchia e Bulgaria si registrano fino a cento arrivi al giorno. Il sistema d’accoglienza nel Paese è al collasso. Mariam e la sua famiglia vengono trasferiti a Harmanli, nel sud del Paese, in una vecchia caserma militare trasformata in fretta e furia in centro di accoglienza: per settimane centinaia di persone dormono in vecchie tende militari, al freddo e sotto la pioggia. Solo ai primi di novembre hanno inizio i lavori di ristrutturazione. Mariam e la sua famiglia vengono alloggiati in un piccolo container riscaldato con due stanze, un cucinino e bagno: «Ora va un po’ meglio, ma è stata dura», ammette la ragazza. Il cibo viene distribuito una sola volta al giorno e le procedure di registrazione procedono lentamente: «Dal campo non si può uscire finché non abbiamo i documenti. Siamo scappati da una prigione per finire in un’altra».

INDIFFERENZA EUROPEA
Prigione o fortezza, l’Europa è la grande assente nella crisi siriana. Mentre i Paesi confinanti hanno accolto centinaia di migliaia di persone in fuga dal regime di Damasco, il Vecchio continente è rimasto a guardare: dalla Bulgaria all’Italia, dalla Gran Bretagna alla Francia, i profughi siriani trovano porte chiuse o condizioni di accoglienza indegne.
Amnesty International accusa: gli Stati dell’Unione europea hanno dato disponibilità ad accogliere solo 12mila dei rifugiati siriani più vulnerabili attraverso programmi di resettlement o ammissione umanitaria. Si tratta dello 0,5% degli oltre 2,3 milioni di persone che hanno lasciato il Paese in questi tre anni. La Germania, da sola, ha dato disponibilità ad accogliere 10mila persone, mentre la Francia si è fermata a quota 500 (lo 0,02% del totale), la Spagna a 30. Altri 18 Stati membri, tra cui Italia e Regno Unito, sono rimasti in silenzio.

«La situazione è imbarazzante per l’Europa: con poche eccezioni, la maggior parte degli Stati non offre protezione ai profughi siriani - sintetizza Philip Amaral, del Jesuit Refugee Service (Jrs) di Bruxelles -. Molti governi hanno la percezione che ci siano troppi rifugiati in Europa. E questo li spinge a chiudere le porte». Ma la visione è miope: sono i Paesi come il Libano (835mila rifugiati su una popolazione di 4,4 milioni di abitanti), la Giordania (566mila) o la Turchia (700mila) a portare il peso maggiore di questa emergenza umanitaria.

Mohamed si accende una sigaretta seduto al tavolo del Bistro syrien di Parigi: «Non fumavo così tanto prima. Sono arrivato a Parigi il 19 settembre 2013. Vorrei poter cancellare questa data». Mohamed è un giornalista siriano di origine palestinese. Ha lasciato Damasco e la sua casa nel campo di Yarmuk (dove vivono da mezzo secolo rifugiati palestinesi) non appena ricevuta la chiamata per il servizio militare: «Avrei dovuto presentarmi il 18 agosto. Il 24 ero già a Beirut». Nemmeno qui si può fermare e solo grazie all’aiuto di Reporters sans frontières riesce a ottenere un visto per lasciare il Libano: «L’ambasciata francese non concede i visti. Ci sono centinaia di persone che potrebbero mettersi in salvo in poche ore, con un semplice volo aereo. E invece sono costretti a prendere la barca», osserva il giovane. Lasciata la guerra alle spalle, l’arrivo a Parigi segna l’inizio di un nuovo incubo: è costretto a dormire per strada, vagare da un ufficio all’altro per le pratiche d’asilo, a non poter lavorare: «Ci vorranno dai 6 ai 12 mesi per concludere l’iter. Il governo dovrebbe proteggermi e invece…».

Lunghi tempi di attesa e mancanza di posti letto sono i principali problemi di un sistema che sembra fatto apposta per scoraggiare i profughi. «I Cada (centri d’accoglienza per richiedenti asilo, ndr) già normalmente sono saturi: i loro 20mila posti sono occupati e circa 30mila persone restano in attesa - spiega Pierre Nicolas, del Jrs di Parigi -. Una carenza evidente soprattutto nelle grandi città, che si somma alla lentezza della macchina burocratica. Che esaspera le persone».

Alla scarsa ospitalità, si aggiungono le dure repressioni da parte della polizia, e gli sgomberi degli abusivi e degli stabili occupati. «La Francia, il grande Paese dei diritti dell’uomo, è in guerra totale contro i rifugiati. Ha fatto così con gli afghani, i somali, gli eritrei, gli iracheni. E ora lo sta facendo con i siriani», commenta amaramente Jean-Pierre Alaux del coordinamento Gisti, associazione impegnata per la tutela dei diritti dei migranti.
Fra il 1° gennaio e il 30 settembre 2013 sono state solo 600 le domande di asilo di siriani registrate nel Paese, ma il numero dei profughi che dormono per le strade di Parigi o di Calais è molto più elevato. La maggior parte, ormai, non chiede più nemmeno aiuto alle autorità francesi: «Non vogliono fermarsi qui, puntano alla Svezia o alla Gran Bretagna - sottolinea Alaux -. Sanno quali sono le condizioni di vita che li aspettano, non vogliono più chiedere nulla per una questione di dignità».

LE VIE DI FUGA
Certo, ci sono le eccezioni all’indifferenza europea. «La Germania ha avviato un importante progetto di reinsediamento, la Svezia già dai primi di settembre 2013 ha concesso la residenza permanente a tutti i richiedenti asilo siriani - riflette Philippe Amaral -. Sarebbe auspicabile che altri governi prendessero decisioni analoghe. Oppure che rendessero più facile arrivare in Europa per i rifugiati». Solo chi mette piede (fisicamente) sul Vecchio continente ha diritto di chiedere asilo politico o protezione: ma per farlo i migranti in fuga sono costretti a varcare clandestinamente le frontiere della Fortezza Europa. Percorrendo rotte sempre più lunghe, sempre più costose e pericolose.

Tra aprile 2011 e dicembre 2013 sono state 70.786 le domande di asilo presentate da siriani nei vari Paesi europei (la fonte è l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati). Italia, Grecia e Bulgaria, per la loro naturale posizione ai confini sudorientali d’Europa, rappresentano la porta d’accesso alla Ue. Ma quasi nessuno vuole fermarsi in questi Paesi: le mete più ambite sono la Svezia (22mila richieste d’asilo), la Germania (2.900), la Norvegia, la Danimarca (2.785).
«Sono due le rotte principali che i siriani seguono per arrivare in Svezia - spiega George Joseph, responsabile per le questioni dell’immigrazione di Caritas Svezia -. La prima parte dalle coste del Libano o dell’Egitto: da qui la maggioranza dei siriani si imbarca verso la Sicilia e poi risale l’Italia per attraversare l’Europa via terra. La seconda rotta invece viene percorsa dai siriani soprattutto di origine curda: attraversa la Turchia e, successivamente, Grecia o Bulgaria per risalire poi lungo la penisola balcanica». In ogni caso, chi vuole partire deve affidare la propria vita ai trafficanti che si fanno pagare anche 5mila dollari per la traversata del Mediterraneo. Viaggi pericolosi, ma che rappresentano l’unica strada percorribile.

Nel corso del 2013, sono sbarcati in Italia circa 10mila siriani. Pochissimi hanno scelto di fermarsi, la maggior parte ha rifiutato di lasciare le proprie impronte digitali, al momento dello sbarco. Seduta all’ombra di un muretto, davanti al centro d’accoglienza Umberto I di Siracusa, Alua aspetta il taxi che la porterà alla stazione: «Conosco la legge dell’Europa, so che se lascio le impronte devo fermarmi in Italia. Ma io non voglio stare qui, voglio andare in Svezia per finire i miei studi». Vuole diventare ingegnere e sa che in Italia non potrà costruire il suo futuro. Si è fermata in Sicilia per poco più di 24 ore, appena il tempo di farsi una doccia, mangiare e dormire qualche ora dopo l’incubo vissuto sulla carretta del mare. Poi il treno fino a Milano. Per tre giorni, assieme a centinaia di persone, ha dormito sui marmi della stazione Centrale. In attesa di trovare un passaggio sicuro verso il Nord Europa.

MILANO, LAMPEDUSA
Nel capoluogo lombardo a fine settembre scoppia l’emergenza e immediatamente scatta la gara di solidarietà per raccogliere cibo, abiti, pannolini e coperte per i siriani accampati in stazione. In prima fila, tanti privati cittadini, soprattutto connazionali residenti a Milano che non hanno esitato ad aprire le proprie case per accogliere questi fratelli in fuga. «Molti non parlano inglese, così li aiutiamo a farsi cambiare i soldi o a comprare i biglietti del treno senza farsi imbrogliare - racconta Shadi, studente milanese di origine siriana -. Ci sono tanti truffatori che hanno approfittato di queste persone, spillando soldi con la scusa del bakshish, la mancia». Numerosi anche i trafficanti, più o meno improvvisati, che hanno affollato la Stazione Centrale per settimane, trasformando l’imponente edificio in una «Lampedusa metropolitana». Un’isola in un mare di cemento da cui tutti volevano fuggire, a qualunque prezzo. Mille euro a persona il costo di un passaggio in auto verso il Nord, verso la Scandinavia.

«Tra i primi di ottobre e fine gennaio abbiamo accolto 1.632 persone all’interno di due centri messi a disposizione dal Comune», spiega Pierfranceso Majorino, assessore ai servizi sociali del Comune di Milano. Ma il numero di siriani che sono passati in città è certamente molto più alto. Anche grazie alla collaborazione di associazioni locali (Caritas Ambrosiana, Comunità di Sant’Egidio, Progetto Arca e Caim, il Coordinamento delle associazioni islamiche della città) è stata messa in piedi una buona rete di accoglienza e, grazie all’accordo siglato dal Comune con la Prefettura, si sono sbloccate le risorse necessarie. A mancare, anche questa volta, è la volontà politica di affrontare il dramma dei siriani che fuggono. «C’è stata una mancanza totale di azione politica da parte del governo - sottolinea Majorino - e a oggi non sappiamo che cosa fare». La convenzione con la Prefettura scadrà il 31 marzo, ma l’emergenza continua: «Che cosa facciamo, andiamo avanti all’infinito?», chiede l’assessore.

Il timore è che l’emergenza durerà ancora a lungo e che con l’arrivo dell’estate riprenderanno gli sbarchi e i viaggi della speranza attraverso l’Europa orientale. «Non ci sono segnali che la situazione possa cambiare in poco tempo - concludono al Jrs di Bruxelles -. Anche se il conflitto dovesse concludersi a breve, di certo non si fermerebbe il flusso dei rifugiati. Questa è una crisi di lungo periodo. E l’Europa la deve gestire».

Ilaria Sesana

© FCSF – Popoli