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Filippine e il tifone Haiyan: quello che resta
16/12/2013

Una testimonianza dalla costa di Tacloban: Pedro Walpole, gesuita delle Filippine noto per il suo impegno ambientalista, ha visitato a fine novembre la città più colpita dal tifone Haiyan, che ha ucciso seimila persone. Racconta la devastazione umana e materiale e il desiderio di ricostruire.

 

La costa di Tacloban è un mare di rifiuti galleggianti: legni di diversa dimensione, pezzi di compensato, porte di frigoriferi, casse, schienali di sedie e tavoli da ufficio. Si può camminare per ore, vedendo la gente che si muove con prudenza in questa montagna di resti. Sulla riva si trovano alberi da cocco anche di due metri caduti, o ruote di veicoli con gli assi spezzati, altrove ci sono pavimenti piastrellati o pezzi di muro, mucchi di terra, tutto coperto da plastica. Spostandosi verso l’interno, un ammasso di tavole forma un muro di oltre quattro metri. Per decine di metri dalla costa si accumulano questi resti contro le case di cemento. Come se fosse un’onda congelata, questa massa di rifiuti è diventata la fonte principale di legname per iniziare la ricostruzione e il luogo da cui ancora non si è potuto recuperare i corpi delle vittime.

La gente sta già ricostruendo le sue abitazioni di due metri per tre, esattamente dove si trovavano prima di essere completamente abbattute. Sono impazienti di lasciare i centri di evacuazione e tornare alla vita di prima, costruiscono come se il mare non fosse sempre lì, e stanno con la testa piegata mentre martellano, a fianco del marciapiede dove giacciono i corpi che non sono stati ancora identificati.
Confusione, contraddizione, dolore, incertezza, negazione, speranza, sfida: tutto questa sta nelle menti e nei corpi di molti. La perdita della famiglia, la vista e l’odore dei cadaveri, sparsi come se fossero borse di plastica, sono situazioni profondamente dolorose e paralizzanti. È forse il maggiore affronto al sentimento di umanità il fatto che non ci sia nessuno per stare accanto a questi corpi e seppellirli con dignità. I problemi sanitari connessi rappresentano un grande rischio mentre la lotta per recuperare acqua e viveri, una casa o abiti puliti consuma tutta l’energia. È disumanizzante non occuparsi dei morti, molti sono interrati a malapena, al largo della riva.

C’è una certa calma, ci si scambia anche saluti allegri: hapun (buona sera), ciao, grazie. I bambini giocano, la gente lava i vestiti, alcuni cercano acqua o riso. Un ragazzo che indossa una mascherina cammina sopra le macerie della propria casa con la speranza di trovare dei famigliari. C’è silenzio, paralisi, a volte perseveranza, ma non è facile incontrare la pace.

È difficile parlare di consolazione, anche se speranza ed eroismo hanno messo le radici qui. Lo si può percepire, mentre il peggio del tifone è passato, ma il suo impatto non è terminato. Molti non possono essere consolati per la perdita dei famigliari o dei vicini, continuano a essere profondamente colpiti dopo avere perso ogni protezione. La loro vita si è ridotta al minimo tra il giorno e la notte.
In televisione alcuni dicono che le cose sono tornate alla normalità, ma «normale» è che la gente possa essere autonoma e abbia qualcosa da fare, possa realizzare un insieme di azioni e mantenere relazioni minime. Non ci sarà nulla di normale nei prossimi tre mesi, nei prossimi due o cinque anni, o forse per qualcuno mai. I campi devono essere seminati, le forniture di acqua riparate, i generatori e gli impianti elettrici ricostruiti, le scuole aperte. Per trovare un lavoro servirà molto aiuto.

Durante il giorno le persone si riuniscono per svolgere vari servizi e far fronte alle necessità immediate delle famiglie. Alla sera si riuniscono e si siedono sulle cataste di legna o sulle panche, alcuni in silenzio, altri parlando della giornata. C’è una ripresa e la gente si informa di ciò che può fare il giorno dopo. Quelli che prestano servizio o hanno incarichi di organizzazione, in diversi luoghi e ambiti, sono necessari e si sentono riconoscenti del fatto di trovarsi qui.

I detenuti nella prigione, allestita in modo improvvisato, costruiscono piccole lanterne di Natale, tipiche di qui, e le appendono alle ringhiere. Se non fosse per il filo spinato, sembrerebbe un tranquillo angolo di villaggio. Consola vedere le persone che lavorano, aggiustando un tetto, versando riso nei piatti, mentre i bambini raccolgono l’acqua, le bancarelle del mercato vendono mazzi di aglio e cipolle (bawang e sibuyas) che danno una sensazione di ripresa. Tutto questo è una benedizione che può passare inavvertita, ma ogni gesto di bontà si riconosce e suscita speranza.

Potremmo tutti sederci e lamentarci del governo, su qualche aspetto e soprattutto in generale, ma adesso questo sarebbe di scarso aiuto. L’acqua e i viveri stanno arrivando nella maggior parte delle zone colpite, i medicinali sono disponibili. Sì, esistono sfruttamento e carenze, ma anche molti sforzi per ridurli. Forse manca soprattutto la previsione: dopo un avvenimento simile, il prossimo paradigma sarà di prevedere il peggio prima che accada e di reagire se alla fine accade. Bisognerà fare valutazioni e rivedere la strategia adottata per la zona colpita a 350 km all’ora, ma non è ancora il momento.

Pedro Walpole SJ

 

© FCSF – Popoli