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Gezi graffiti
09/07/2013

Nei giorni dell'occupazione, i muri di Gezi sono diventati una grande bacheca su cui i giovani turchi hanno lanciato i loro messaggi al premier Erdogan. Attraverso questi graffiti possiamo capire l'essenza variopinta di un movimento difficile da etichettare. Il racconto di un fotografo italiano, a Istanbul nei giorni della protesta.


Ora che l'occupazione del parco Gezi
e della piazza Taksim è finita, lasciando il movimento antagonista turco che qui è sorto privo del suo quartiere generale, molti vorranno cercare di spiegare che cosa sia stato, cosa rappresenti e cosa significhi quel luogo che tra il 28 maggio e il 15 giugno scorso ha tentato, per tre caldissime settimane, di essere l'epicentro di una rivoluzione che non si è ancora data per vinta.

Tra molte incognite e analisi di segno diverso, la certezza è che Gezi è stata un'immensa bacheca, in cui le realtà più diverse del mondo politico turco sono andate ad affiggere un cartello, che diceva semplicemente: «Siamo qui e ci opponiamo al governo di Recep Tayyip Erdogan». Letteralmente, le mura gli alberi e le tende di quello spazio difeso ad ogni lato da grandi barricate sono state colorate da scritte che mostravano la varietà della protesta e anche il suo spirito giovanile.

Così, sulle pareti di Gezi potevano convivere le frasi classiche della ribellione, tipo «Viva la libertà», «Morte al fascismo», «Non un passo indietro» o «La poesia è in strada» (parafrasando il vecchio motto del Maggio francese, secondo cui era la bellezza ad aver occupato le piazze); insieme ad altri slogan coniati apposta per il contesto politico turco, come per esempio «Se Erdogan si dimette, smetto di fumare» o «Siamo solo quattro o cinque teppisti, non è vero Tayyip?», in riferimento alle parole del premier che, nei primi giorni della rivolta aveva accusato i manifestanti di essere solo pochi «çapulcu», cioè vandali.

D'altra parte, il rifiuto della durezza con cui la polizia ha affrontato le proteste ha tenuto unite realtà ideologiche altrimenti inconciliabili. A Gezi, per esempio, si potevano trovare vicini un cartello che recitava «Allah ama le persone rette, ma anche le teste dure», e un altro con la scritta ben più «irriverente»: «Eravamo ubriachi, hai proibito l'alcol e guarda cos'è successo adesso che siamo tutti sobri». O ancora: «Siamo soldati di Mustafà Kemal», il celeberrimo Atatürk, nazionalista, vicino a un altro con scritto: «Libertà per il popolo curdo», separatista e comunista.

Eterogeneo era anche l'atteggiamento nei confronti della stampa. Alle decine di divieti che con un perentorio «photo yok», niente foto, provavano a proteggere l'identità dei medici che curavano i manifestanti feriti e che per questo rischiavano l'arresto come fiancheggiatori, si contrapponevano esempi come quello di un gruppo di ragazzi che aveva scritto in nove lingue, compreso l'italiano: «La stampa turca continua a dormire, raccontate Gezi al mondo». Su questo aspetto, come su qualsiasi altro, prevaleva comunque spesso l'ironia: «In Arizona sanno meglio di noi cosa sta succedendo a Istanbul», ha scritto qualcuno, volendo partecipare al grande concorso delle battute scherzose da barricata, che si giocava con le scritte fino agli angoli più nascosti del parco. «Non ci laviamo da tre giorni, mandateci il carro idrante della polizia». «Il gas piccante è uno sballo, fratello». «Drogba governatore». «Siamo spiacenti, ma le strade saranno occupate per rivoluzione durante tutti i prossimi giorni lavorativi», «Siamo persone già abbastanza sensibili senza bisogno che ci spari anche il gas lacrimogeno»: sono solo alcuni campioni tratti dai mattoni del parco.

Lo slogan più ricorrente era però «diren Gezi», ribellati Gezi, e le scritte con i nomi dei ragazzi morti negli scontri, intervallati da qualche parola più solenne delle altre: «Basta violenza», «Ascolta la tua coscienza, non mi uccidere», «C'è qualcosa di più che un semplice mucchio di carne ed ossa dentro a questa tenda», «Sono un bravo ragazzo» e «Mamma, non ti preoccupare, non sono in prima fila: ci siamo tutti insieme».

Filippo Fiorini

© FCSF – Popoli
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