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Turchia, le mille anime della rivolta
20 giugno 2013

«Duran Adam», l’«uomo fermo»: è la nuova forma - nonviolenta - di protesta che si sta diffondendo a Istanbul e in altre città della Turchia, da Bursa ad Antalya, da Mersin alla capitale Ankara. Erdem Gündüz, l’artista coreografo che ha ideato questo modo di manifestare a piazza Taksim, è stato imitato da centinaia di altre persone. L’«uomo fermo» si pone davanti a un ritratto di Atatürk appeso nella piazza di Istanbul. «Nonviolenza, ma anche determinazione e dignità: sono la sostanza di questo gesto, che non ha tuttavia preservato alcuni manifestanti dall’arresto», osserva Claudio Monge, domenicano impegnato nel dialogo interreligioso e che, dalla sua comunità nella città sul Bosforo, riferisce gli eventi di queste settimane.

Il parco Gezi, il giardino che le autorità volevano smantellare per costruire un centro commerciale e che è diventato il luogo simbolo delle proteste, è stato vuotato dai suoi occupanti. L’idea ventilata di un referendum sulla sorte del parco è già dissolta e il taglio degli alberi è iniziato. Il primo ministro Erdogan ha ottenuto ciò che aveva promesso a una folla di sostenitori: «pulizia totale della piazza della sua vergogna». Chiunque venga sorpreso a entrare nella zona controllata dalle forze dell’ordine sarà considerato membro o sostenitore di un organizzazione terroristica, come ha dichiarato in Tv Egemen Bagis, ministro per gli Affari europei.

Dopo tre settimane di proteste si contano quattro morti, centinaia di feriti, innumerevoli arresti, anche tra giornalisti e avvocati. La reazione muscolare dell’Akp, il partito per la Giustizia e lo Sviluppo, di ispirazione islamica, che governa la Turchia dal 2002, può dare risultati immediati, ma non risposte certe sul futuro.

La decisione di abbattere centinaia di alberi in una piccola area verde del centro di una città con circa 19 milioni di abitanti, per costruire un centro commerciale, ha scatenato reazioni che esprimono un malcontento più vasto e profondo. Il movimento non si è mosso, però, con una guida politica. L’universo variegato dei manifestanti comprende soprattutto giovani, persone di una certa cultura, ma anche famiglie. Unisce cittadini con una forte connotazione (ambientalisti, sindacalisti, persone della minoranza curda e anche musulmani che si sono sentiti traditi dal partito filoislamico) e cittadini privi di riferimenti ideologici. Non si riconoscono nell’opposizione politica in parlamento. Ma tutti reagiscono all’autoritarismo del potere, che è specchio di un autoritarismo diffuso nella società.

«L’autoritarismo in Turchia ha due origini principali - riferisce Jean-Marc Balhan, gesuita attivo ad Ankara -. La prima risale alle origini della Repubblica, i cui dirigenti si sono sempre considerati come “educatori del popolo” che riformavano la società dall’alto. La seconda è un conservatorismo che tocca la maggior parte degli strati sociali e culturali. Si apprezza l’uomo forte, la gerarchia, l’etica dell’onore (che Erdogan cerca di salvare)».

Jean-Marc Balhan osserva che oggi, in molti, non accettano più l’atteggiamento da pater familias che decide sempre per tutti, intervenendo negli ambiti della vita, dal numero «giusto» di figli che bisogna avere, al tipo di bevande da consumare, ai temi trattati nelle serie televisive fino alle scelte urbanistiche. I successi elettorali hanno portato il leader a concepire la propria maggioranza come volere dell’intero popolo e ciò non sembra più tollerabile ai settori della società turca che vogliono il pluralismo. Tuttavia, il loro riferimento al simbolo di Atatürk resta ambiguo, perché la Repubblica laicista e autoritaria fondata negli anni Venti non è storicamente un modello per una società moderna e più aperta che molti manifestanti richiedono.

Fino a oggi i turchi che protestano hanno mostrato coerenza nell’azione pacifica e hanno finora usato l’arma dell’umorismo con efficacia. Un esempio per tutti è la canzone Tencere tava havasi. «In molte città chi vuole manifestare dissenso al governo suona il clacson o batte le pentole - spiega Jean-Marc Balhan -, come ai tempi dei colpi di Stato militare, quando manifestare era pericoloso. A questi il primo ministro ha risposto: “Tencere tava, ayni hava”, che significa “pentole e tegami, è la stessa solfa”, che rapidamente si è trasformata in una canzone piena di humor, che già nel titolo deride l’affermazione del primo ministro. Oppure un lenzuolo con la scritta «ricordo della resistenza» (nella foto), che riproduce la ragazza vestita di rosso, colpita con i gas il 5 giugno e diventata uno simbolo dei manifestanti.

«La piazza chiede una evoluzione della democrazia come sistema partecipativo, basato sul confronto delle idee - spiega Claudio Monge -. Vogliono ridefinire il concetto di cittadinanza repubblicana per arrivare a una riconciliazione della tante anime della società turca». Uomini fermi, ritti come alberi, uniti a formare un giardino.

Francesco Pistocchini

© FCSF – Popoli